Finché ad assolvere funzioni di pura rappresentanza – prestigio molto, potere zero – fosse solo la figura dell’Alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza comune (Pesc) dell’Unione europea, sarebbe ancora accettabile. Se però a partecipare di questa poco invidiabile condizione risulta essere anche il Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE), ovvero la struttura diplomatica preposta dal Trattato di Lisbona ad attuare ed applicare la politica estera comunitaria, allora diventa evidente come il problema sia, come si dice, nel manico.
Immaginato come strumento per dotare l’Unione di una propria rete diplomatica (ambasciatori, funzionari, facilitatori) in grado di affiancare – quando non addirittura di surrogare – le istituzioni dei singoli Stati membri nella gestione delle crisi internazionali, il Servizio si sta rivelando strada facendo incapace di assolvere al proprio compito: quella che doveva essere un’organizzazione efficace e fattiva ha mostrato il proprio volto di struttura elefantiaca – con sedi, personale e costi paragonabili a quelli delle diplomazie tradizionali – ma non in grado di incidere sugli scenari nei quali è chiamata ad operare.
L’ultima dimostrazione di questo assunto si sta avendo in Iraq, quando, dinanzi alla palese violazione dei principali diritti umani di cui l’Europa tanto si sente paladina, la delegazione diplomatica europea presente in quel Paese fatica a portare risultati a casa. E non per scarsa preparazione o assenza sul campo. Bensì per la totale assenza di precisi ordini vincolanti derivanti dal Trattato UE. Il Servizio europeo, infatti, dovrebbe fungere da strumento di elaborazione ed attuazione della politica estera europea, ma tutti sanno – è consuetudine ormai consolidata – che gli affari esteri vengono decisi nella cucina dei singoli Paesi membri.
Il fatto che in questi giorni manchi del tutto una “brussellizzazione” della politica estera e che, quindi, siano le iniziative delle singole capitali a prevalere – si pensi all’appello del ministro degli Esteri Fabius o alla proposta del ministro Mogherini di inviare armi ai curdi – è la palese e più tangibile dimostrazione del fallimento di un’integrazione politica europea che, soprattutto sulle emergenze e le crisi internazionali – dalla Siria all’Ucraina, dalla Libia all’Iraq – continua a restare impotente. E quindi marginale rispetto all’azione internazionale compiuta da altri continenti. In primis l’America. Sempre pronta a far sentire la propria voce.
L’organizzazione ed il funzionamento del Servizio europeo – così come si evince dagli archivi – furono all’epoca della sua nascita, nel gennaio del 2011, oggetto di una lunga e serrata trattativa interistituzionale. Come spesso avviene quando le idee attorno al tavolo non riescono a restringersi ad un’unica linea, si optò così per la sua più generica ed ampia definizione. Ecco spiegato perché oggi Bruxelles non si sente affatto la coscienza sporca quando gli viene chiesto di convocare un Consiglio affari esteri straordinario sul genocidio in Iraq, o addirittura quando lascia che siano altre potenze ad intervenire sulla vulnerabilità di governi a noi limitrofi e di cui l’Europa, nel caso di un’escalation della crisi, è la prima a subirne gli effetti. Innanzitutto per la sicurezza dei propri cittadini.
Oltre al danno anche la beffa. Dopo settimane di silenzio finalmente qualche giorno fa arriva una telefonata Barroso-Poroshenko-Putin sulla situazione in Ucraina, le vivissime felicitazioni di Van Rompuy e Barroso per l’elezione di Erdogan in Turchia, fiumi di parole sull’accordo con la Colombia, sulla Cambogia e sulla Giornata Internazionale dei Popoli Indigeni. Ma tiepide restano le reazioni sul massacro delle minoranze in Iraq. Certo, le felicitazioni per lo stanziamento di cinque milioni in aiuti umanitari abbondano ed è tutto un darsi pacche sulle spalle e dirsi bravi da soli. Quanto alla famosa riunione straordinaria dei ministri degli Esteri UE, richiesta e mai convocata, non una parola. Nessuno ci mette la faccia. Come se, a Bruxelles, politica estera e beneficienza fossero la stessa cosa.