Eni, Enel, Snam, Terna, Telecom, Fca-Fiat. Gli investimenti cinesi in Italia si moltiplicano e dietro di essi c’è una precisa strategia di Pechino nei confronti del nostro Paese e dell’Europa.
A crederlo e spiegarlo in una conversazione con Formiche.net è Alberto Forchielli, socio fondatore di Mandarin Capital Partners, il più grande fondo di private equity sino-europeo, e Osservatorio Asia, centro di ricerche non-profit.
Forchielli, che significato dare a questi investimenti? C’è una strategia pianificata?
Assolutamente sì. La banca centrale cinese, People’s Bank of China, ha in portafoglio partecipazioni di tutte le principali aziende del mondo. Tuttavia di solito adotta un basso profilo, tenendosi sempre al di sotto della soglia da dichiarare pubblicamente. In Italia invece, dove la soglia è il 2 percento, Pechino continua a fare investimenti che la superano di pochissimo: Fca (Fiat), Prysmian, Eni, Enel e Telecom. Ciò vuol dire che vuole farsi notare.
Perché e con quali obiettivi?
Meglio delle mie parole lo spiega una ricerca, pubblicata dall’istituto Pew lo scorso luglio, su come l’opinione pubblica di alcuni Paesi vede la Cina. È emerso che il 70% degli italiani vede di cattivo occhio Pechino. Una percentuale altissima, superiore a quella di tutti i Paesi occidentali. Il loro è un messaggio sia di amicizia, sia di potere. Nella loro testa gesti come questi, che comportano un investimento minimo, dovrebbero rendere la Cina più amata nel nostro Paese.
Da cosa deriva questo sentimento anti-cinese?
Le ragioni sono molteplici. Primo, tra i Paesi industrializzati l’Italia è uno dei più colpiti dalla competizione cinese. Secondo, le nostre pmi che sono andate in Cina senza protezione sono state letteralmente massacrate e depredate di risorse e know how. Terzo, truffe come Suntech in Puglia o vetrine permanenti degli orrori come Prato rappresentano immagini difficili da cancellare. E non è un caso che le prime partecipazioni dichiarate, quelle in Eni ed Enel, siano arrivate subito dopo la strage in un’azienda tessile della città toscana, dove persero la vita sette persone.
Ritiene che la Cina si stia orientando più sull’Europa e meno in Paesi più finanziarizzati come scrive oggi l’economista Francesco Daveri sul Corriere? O è solo una diversificazione di portafoglio?
Non c’è una scelta così selettiva, i cinesi comprano dove possono. E ora è più semplice farlo nei Paesi più in difficoltà come Italia, Spagna, Portogallo, Grecia. Le altre nazioni che possono evitarlo, come Francia e Germania, lo fanno. A nessuno piace far entrare in casa un ospite ingombrante come la Cina.
Che dietro questo tipo di investimenti ci siano mire geopolitiche è fuor di dubbio. Pechino punta in modo deciso a spaccare l’alleanza tra Europa e Stati Uniti, anche per minare il trattato di libero scambio transatlantico, il Ttip, e influenzare i processi europei. Lo fa come può, dando ad ogni Paese ciò di cui ha necessità. In questo momento l’Italia aveva un bisogno disperato di liquidità e Pechino gliel’ha concessa. Detto ciò io ritengo che acquistare il 35 percento di una holding non quotata come Cdp Reti non ci esponga a grandi rischi nell’immediato. Sicuramente avranno pensato che i 2 miliardi che ci hanno speso equivalgano a una settimana di interessi passivi dell’Italia, quindi prima o poi ci toccherà vendere il resto. Ma io trovo molto più grave la loro entrata in società private che controllano i media, come Fca-Fiat con il Corriere della Sera. Anche la scelta di quegli investimenti fa parte di una strategia che mira a migliorare l’immagine cinese in Italia.
Ritiene che questo tipo di intervento sia propedeutico a un potenziale ingresso del colosso cinese anche nelle municipalizzate?
Non c’è un disegno preciso, ma la Cina è presente e laddove ci sarebbe la possibilità di investire lo farebbe, anche nelle municipalizzate. E di per sé, se si trattasse di casi singoli non ci sarebbe niente di male, ma quelle che erano eccezioni come detto si moltiplicano. E il messaggio sottinteso è: l’Italia è nostra.