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Come far crescere l’imprenditorialità in Italia

Mai come oggi, con la globalizzazione e la grande crisi in corso, il processo di nascita, sviluppo, selezione competitiva, quindi sopravvivenza di alcuni e scomparsa di molti, che Schumpeter chiamò processo di “distruzione creativa”, è stato così drammatico e centrale. L’imprenditore ne è il fulcro, e lo sviluppo di nuove imprenditorialità, di capacità di rischiare, di innovare, e di creare nuova attività economica competitiva, sono le sue caratteristiche fondamentali. L’Italia, paradossalmente, se nel tempo ha mostrato di essere capace di produrre generazioni di grandi imprenditori, di innovatori e visionari, è forse uno dei contesti più avversi oggi allo sviluppo di quelle caratteristiche che sono alla base dell’imprenditorialità e meno favorevoli al loro emergere.

Vorrei elaborare qui brevemente tre considerazioni che mi paiono cruciali, e che si collegano bene con quel che ho già detto in una mia recente intervista sugli aspetti positivi e negativi degli imprenditori nel nostro Paese. Sono considerazioni maturate nella mia esperienza professionale, prima alle dipendenze di alcune importanti Investment Banks americane, poi direttamente in prima persona, come banchiere da quando, vent’anni fa, ho deciso, di aprire una mia propria società Advantage Financial che oggi opera a Milano, New York e Lussemburgo. E’ una banca di investimento che promuove soluzioni finanziarie per PMI, tramite anche emissione di carta commerciale, e sostegno all’internazionalizzazione con un’attenzione particolare ai mercati emergenti più dinamici, fra cui l’Africa Orientale e il Medio Oriente.

La prima considerazione è che l’imprenditore è una figura per sua natura non ortodossa, che sfugge alle medie, al “mezzo pollo di Trilussa”, ed è proprio il suo porsi sempre “al di fuori della scatola”, come si direbbe in America, che ne costituisce il potenziale dirompente e innovatore. Si possono fare tanti esempi, da Adriano Olivetti a Richard Branson, da Stephen Jobs a Mark Zuckerberg. Tutti hanno in comune questa capacità di pensare e agire in modo libero, non conformista in un certo senso, seppur capace di trarre ispirazione e forza dalle tradizioni passate e accumulate. A cavalcioni sulle spalle dei giganti del passato, sì, ma sempre pronti a innovare, ad assumersi nuovi rischi, a vedere opportunità là dove l’individuo medio vede pericolo o semplicemente non è in grado di cogliere lo stimolo. Su questo aspetto vorrei aprire una breve parentesi che può dare un’idea in più della “eccezionalità” delle doti imprenditoriali.

Di recente, alcuni studiosi della Cass School of Business di Londra (in particolare, Julie Logan) e del Massachusetts Institute of Technology di Boston, USA, hanno ottenuto dei risultati statistici molto robusti, che correlano la dislessia, generalmente un tratto identificato come un forte handicap allo sviluppo e al successo, e la capacità imprenditoriale. Se si analizzano campioni di imprenditori e di manager industriali, e li si confrontano con la popolazione in generale, si scopre che ci sono molti più imprenditori dislessici che manager, e che la percentuale di imprenditori affetti da dislessia (35% negli USA, 20% nel Regno Unito) è di gran lunga superiore a quella della popolazione in generale. Questo riflette in parte l’approccio più evoluto e moderno dei sistemi educativi di questi paesi al trattamento della dislessia. Ma si correla anche fortemente a delle caratteristiche fondamentali dell’imprenditore, la capacità di prendere rischi, di operare in un contesto di incertezza, di prendere decisioni innovative, e di comunicare oralmente una visione chiara del proprio progetto imprenditoriale.

La seconda considerazione che faccio è: la società, il sistema scolastico, le norme sociali e le regole dell’economia e dell’amministrazione, favoriscono o no l’emergere di queste figure? Qui la risposta è molto rapida: raramente. E questo è vero soprattutto nei paesi dell’Europa continentale, l’Italia fra questi, dove i sistemi scolastici sono più tradizionali e cercano di uniformare a una figura media gli individui, e dove i comportamenti socialmente accetti sono ispirati a modelli in una certa misura più rigidi. E soprattutto, dove non si stimola abbastanza la competitività e l’immaginazione, il pensiero aperto e l’espressione alternativa agli schemi tradizionali. E dove, soprattutto, ancor oggi fenomeni come la dislessia vengono identificati più come delle patologie da reprimere che come delle caratterizzazioni alternative, da capire, affiancare e sulle quali costruire uno sviluppo diverso ma spesso anche più adatto all’incertezza e alla competizione imprenditoriale.

La terza considerazione quindi è più propositiva. Esistono delle condizioni che possono favorire invece che ostacolare lo sviluppo imprenditoriale? Su questo tema si è scritto molto. Mi ispiro ad alcuni studi recenti Canadesi e della consulenza internazionale (un recente lavoro di McKinsey per i G-20), che mi pare riassumano bene le caratteristiche fondamentali. Si identificano tre grandi aree.

La prima, secondo me importantissima, è la promozione di una vera cultura imprenditoriale. Questo deve cominciare dal sistema scolastico, che deve da un lato modificare i metodi e gli approcci educativi in modo tale da favorire un’istruzione più aperta e eclettica, d’altro canto deve lanciare programmi educativi mirati, su base nazionale e internazionale, il cui scopo sia di dare enfasi alle attrattive dell’imprenditorialità e di educare meglio la popolazione alla forma mentis dell’imprenditore. La seconda serie di interventi concerne la creazione di un contesto favorevole, un “ecosistema fertile” come lo identifica uno dei recenti studi. Questo si può attuale con una serie di iniziative mirate a livello locale e regionale, incoraggiando imprenditori, autorità locali, grandi aziende, assieme al sistema educativo pubblico e privato, a identificare e mettere in atto strategie comuni che promuovano un’ambizione comune, obiettivi condivisi, e identifichino un pool di talenti futuri. Questi talenti devono essere l’obiettivo di un’azione volta ad allineare al meglio possibile la domanda di competenze del tessuto economico delle imprese all’offerta dell’istruzione primaria, secondaria, professionale e avanzata.

Queste strategie possono avere successo solo se tutti gli attori principali sulla scena economica coopereranno, ed avranno gli incentivi adeguati a cooperare. Imprese, scuole, pubblica amministrazione, università, devono concentrarsi sulla promozione della ricerca industriale applicata, favorendo lo scambio di talenti tra l’accademia, la ricerca e le imprese, in un vero e proprio continuum.
Sono inoltre necessarie infrastrutture comuni, con una collaborazione attiva tra settore pubblico e privato, a livello locale e nazionale, dai centri di ricerca e sviluppo, i trasporti, lo sviluppo della comunicazione di dati e la tecnologia dell’informazione. E’ necessario un quadro legislativo e normativo stabile, semplice e favorevole a livello nazionale, regionale e sovranazionale che permetta all’imprenditoria di nascere, svilupparsi ed espandersi raggiungendo rapidamente una massa critica. Fondamentali, per contribuire a tale successo, sono anche gli incentivi fiscali alla creazione di nuove imprese, e al loro sviluppo, nonché alle attività innovative.

In terzo luogo, è necessario un sistema finanziario che sia capace e pronto a finanziare l’imprenditorialità dal momento della sua nascita fino a quando non raggiunge una dimensione critica. Si tratta quindi di garantire la disponibilità di finanziamenti per ogni stadio della attività di impresa e di sostenere lo sviluppo di mercati azionari nazionali e regionali dedicati anche alle PMI ad alto potenziale, in modo da favorire l’emergere di nuove imprese. Occorre sviluppare soluzioni finanziarie nuove e specifiche per gli imprenditori ad alto rischio. Tutto ciò ovviamente non solo favorirà la crescita di una nuova, attiva classe imprenditoriale, ma si tradurrà, a livello aggregato, in un rinnovamento della crescita e della competitività economica del Paese, nella riduzione della disoccupazione e nel riguadagnare un ruolo centrale nella competizione globale.

In Italia, occorre ricordare, il ruolo del sistema legislativo, ma soprattutto dell’impianto giuridico incaricato di applicare e far rispettare le leggi. Non è possibile sviluppare in modo appropriato l’impresa in un clima di incertezza del diritto, ove le transazioni e i contratti non possano aver luogo in un contesto in cui ogni disputa può essere risolta, rapidamente, in modo efficace e senza interferenze e traversie. Il rilancio dell’imprenditorialità (soprattutto giovanile) nel nostro Paese può essere un trampolino per la ripresa del Mezzogiorno e un’opportunità anche per le imprese del Nord
o i grandi investitori istituzionali di co-investire in progetti più rischiosi o in settori nuovi in cui non vogliano entrare fin dall’inizio con un rischio di impresa diretto (ad esempio nel settore delle biotecnologie). Occorre inoltre incentivare (o motivarne la trasformazione) i settori più maturi, come la produzione di carne, l’alimentare in generale, il mobilio/falegnameria, calzaturiero, nautica ed altri, al fine di riposizionarne l’eccellenza, cercando di arginare o rovesciare il problema dell’occupazione giovanile – ogni imprenditore crea lavoro almeno per altre 5-10 persone direttamente, e rende la società circostante più positiva e innovativa, una forma di “contagio” che promuove così un’importante esternalità economica positiva, che spinge la crescita nel suo complesso.

Il ruolo della trasformazione del sistema educativo in un senso che promuova l’imprenditorialità equivale a prevenire il problema dilagante della disoccupazione, della contribuzione al sistema pensionistico e dell’economia sommersa e criminale.


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