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Guerre e disastri fanno bene alle Borse?

Per tutto il 2014 ci siamo detti e ripetuti che l’economia americana è la più solida e sana del mondo. L’SP 500, in effetti, guadagna in euro, dal primo gennaio, il 12.7 per cento. Negli stessi mesi, tuttavia, ci siamo anche detti e ripetuti un’infinità di volte che uno dei paesi più disgraziati che si possano immaginare è l’Argentina.

Sui giornali abbiamo letto solo notizie sulla svalutazione del peso, sul nuovo default sui bond ristrutturati, sui controlli valutari sempre più asfissianti e su un’economia soffocata dalla mancanza totale di investimenti e costretta alla stagnazione a perdita d’occhio. Bene, la borsa di Buenos Aires, ha reso in euro, dall’inizio dell’anno, il 47.4 per cento.

Certo, l’Argentina tratta tradizionalmente a pesci in faccia i suoi creditori esteri, ma è bastato, quest’anno, che i pesci fossero un po’ più piccoli per commuovere gli obbligazionisti. E d’altra parte, una politica economica caotica e populista al cubo, come quella di Buenos Aires, rincuora gli azionisti locali e li riempie di speranza se diventa caotica e populista al quadrato.

Anche del Brasile si è parlato solo male, quest’anno. Il paese non cresce più, fa politiche antibusiness e ha accumulato parecchio debito privato. La candidata emergente alla presidenza, Marina Silva, è stata alla sinistra di Lula da ministro, non ha detto una sola parola sul suo programma economico ed è un mistero assoluto su tutta la linea. Non importa, dice la borsa di San Paolo, qualunque candidato è meglio della presidente uscente Dilma Rousseff.

Il risultato è che San Paolo cresce da inizio anno, in euro, del 29 per cento. Le società nell’orbita pubblica crescono ancora di più (Petrobras è in rialzo del 90 per cento). Tutto questo senza che ci sia nessuna certezza sul fatto che la Rousseff non sarà rieletta.

Quanto al Mashrek, l’oriente arabo che va dal Cairo fino al Golfo Arabico-Persico, il flusso di notizie ha incluso la terribile guerra civile siriana, il conflitto tra Gaza e Israele, il collasso dei confini statuali stabiliti da Francia e Gran Bretagna nel 1916 e l’irruzione sulla scena dello Stato Islamico che semina morte e terrore. La borsa del Cairo, in euro, guadagna quest’anno il 38 per cento, la borsa saudita il 34.5, il Qatar il 39.1, gli Emirati il 54.1. Israele è in rialzo del 7.4 e la Palestina dello 0.6. Dal canto suo la Turchia, ormai in guerra aperta contro la Siria, cresce in euro del 23.2 per cento. E perché mai? L’Egitto controllato da militari e salafiti (cioè da Stati Uniti e Arabia Saudita) è più stabile. I paesi del Golfo si sentono meno minacciati dall’Iran. La Turchia non è piombata nel caos come si era temuto. Tutto è relativo.

La rassegna non può che concludersi con l’Ucraina. Il primo gennaio era un paese attraversato da tensioni forti ma limitate alla piazza di Kiev. Oggi è in guerra civile, con un prezzo di sangue di duemila morti, ed è l’epicentro di un conflitto potenzialmente globale. La borsa di Kiev è salita in valuta locale del 54.2 per cento perché il nuovo governo è probusiness (o pro-oligarchi, a seconda dei punti di vista). Il deprezzamento della grivna fa sì che, in euro, la borsa risulti in ribasso del 2.7 per cento. Un dato comunque migliore di quelli di Giappone, Ungheria, Austria, Estonia, Lettonia e Malta.

(Brano tratto dalla newsletter di Fugnoli “Il rosso e il nero”)



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