Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori pubblichiamo l’articolo di Alberto Pasolini Zanelli, apparso sul quotidiano Italia Oggi.
I suoni e le immagini che ci vengono da Gaza non aumentano le simpatie né la comprensione per i protagonisti. Incidono, anzi, sulle più consolidate amicizie e alleanze. Un infaticabile tessitore di mediazioni e di buona volontà come il segretario di Stato americano John Kerry perde la sua pazienza di aristocratico della diplomazia e si fa cogliere dai microfoni durante una frase non proprio riguardosissima verso Israele, e un portavoce israeliano risponde con un ancor meno felice gioco di parole che paragona gli sforzi insistenti di Kerry a un atto di terrorismo.
Il mondo ascolta, non sempre capisce, si impietosisce, si indigna.
Quella Striscia maledetta sull’orlo del deserto appare ai più, in queste ore, come l’epicentro di un terremoto di guerre che scuote metà del mondo. Guardiamo e piangiamo i bambini palestinesi falciati dal fuoco su una spiaggia; quasi non ci accorgiamo che, nelle stesse ore, in un paio di giorni in Siria sono morte 700 persone, 170 mila in tre anni da che il conflitto è in corso. E non sono solo quei due i campi di battaglia: è un’intera regione, una grande area della Terra che è teatro di una grande guerra. È lecito ma fuorviante ridurla a una guerra fra arabi ed ebrei in Palestina. Quella esiste, ma non è più la stessa. Il mondo attorno è cambiato. E non ha cominciato in Palestina.
Un esperto diplomatico americano, Richard Haass, lo ha definito una Guerra dei trent’anni del Medio Oriente, un conflitto razziale, nazionale, religioso, sociale che trasforma nelle sue convulsioni quella parte del mondo. Ci sono più guerre in una. Quella tra i sunniti e gli sciiti. Quella fra i sauditi e gli iraniani per la supremazia regionale. La guerra fredda fra sunniti che rivaleggiano per il primato (Arabia Saudita, Qatar e, più dietro le quinte, Turchia). E infine lo scontro, il più violento, fra i regimi arabi autoritari e i jihadisti islamisti.
In questo quadro intricato l’ennesima tragedia di Gaza è collaterale a un evento che ha il suo centro in Egitto: la guerra a morte fra il regime militare e i Fratelli musulmani, di cui Hamas è un’appendice provinciale. Questo sangue sgorga dai fiori della Primavera araba, l’abbattimento della dittatura marziale di Mubarak, che ha portato gli estremisti al potere e la successiva rivincita dei generali, le loro sanguinose vendette, con condanne a morte a centinaia e con la chiusura, decisa dal Cairo, di quasi tutti i tunnel che collegano Gaza all’Egitto, unico suo collegamento con il mondo. Una misura devastante per una delle società più povere della Terra, che gli economisti calcolano in almeno un quinto del misero reddito.
Hamas si è sentita costretta a reagire ma, non potendo affrontare l’Egitto, si è scagliata contro Israele. Sa che non potrà vincere né resistere a lungo: cerca il Grande gesto, il Sacrificio eroico che provochi un’ondata di indignazione e conquisti simpatie e appoggi alla sua causa. Israele ha reagito come ci si attendeva, soprattutto da parte di un governo guidato da Netanyahu. Il mondo dei dintorni si è diviso più o meno come nei calcoli. A cominciare dai «mediatori»: l’Egitto e l’Arabia Saudita, sotto sotto, sono più vicini a Israele. Invece la Turchia e il Qatar sono fiancheggiatori di Hamas. Segretamente, d’accordo, ma non sorprendentemente.
E l’America, Obama e Kerry, deplorano ma non hanno scelta. Sono i primi a conoscere il contesto, che un politologo conservatore dal calibro di David Brooks ha riassunto in una citazione da Hemingway, «per chi suona la campana», trasformandola appena in «nessuna guerra è un’isola». In prosa, c’è anche per gli americani il tempo di riflettere, di ricordarsi che uno dei sismi che hanno messo in moto questa frana è venuto da una decisione di Washington di undici anni fa: la distruzione del regime iracheno di Saddam Hussein, una brutale dittatura che garantiva un certo equilibrio regionale. Si chiamava Iraq, oggi non esiste più se non nel delirio dei discepoli di Bin Laden e nel Califfo che essi cercano di mettere sul trono a Baghdad. E anche a Damasco, perché il rovesciamento di Assad completerebbe la distruzione di quell’«ordine» e una conclusione di questa «guerra dei trent’anni» mediorientale forse ancora più rovinosa della guerra che infuria a Gaza e in tante altre plaghe.