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Come arginare il terrore islamista dell’Isis

Di e su Isis si è scritto troppo e fatto troppo poco. Accademici di relazioni internazionali, analisti di centri studi e analisi di intelligence hanno prodotto migliaia di documenti e inondato le cancellerie dei Governi mondiali. L’esito è stato aver definito l’Isis la nuova minaccia jihadista super-radicale, un rischio asimmetrico transfrontaliero e la necessità di combattere una nuova “guerra al terrore” d’ispirazione neoconservatrice. La conclusione, appare evidente, è che l’afasia strategica continua ad essere dilagante nell’attuale contesto internazionale, fungendo da clorofilla per questa organizzazione criminale organizzata e non più solo gruppo terroristico geografico.

Lo scenario su cui agisce l’Isis è ben più ampio delle frammentarietà geografiche, su cui si pensa ancora di poter governare gli assetti globali, e il concetto strategico del XXI secolo non è più basato sui concetti di spazio e tempo, ma su nuovi parametri fondamentali, che potremmo riassumere nel triangolo sinergico “settori di attrito – archi di crisi – distribuzione di potenza/proiezione di potenza”, base del multipolarismo imperfetto che rappresenta la nomenclatura del nuovo ordine globale e globalizzato.

Come hanno sottolineato i massimi vertici del Pentagono e della CIA, anche se Al-Qaeda sembra essere stata sconfitta come “base logistica”, vi è una chiara sconfitta politica dell’Occidente incapace d’impedire che l’ideologia jihadista si ramificasse a macchia d’olio allargando l’arco di crisi dalla Tunisia all’Afghanistan. Troppo ampio perché una sola nazione possa instaurare un equilibrio stabile, anche a colpi di cambi di regime, o perché missioni internazionali di peacekeeping o post-conflict peace-building possano portare i benefici sperati.

Occorre analizzare prima di tutto i settori di attrito, su cui l’Isis trova la propria linfa strategica ed operativa.
L’Isis rappresenta la radicalizzazione supra-nazionale di un’ideologia pan-religiosa anti-sionista e contraria ai principi e ai valori del mondo Occidentale, quelli cioè dei diritti umani, delle libertà individuale e collettiva, della modernizzazione e del Liberal World Order, su cui non si negozia e per cui molto sangue è già stato versato.

La devoluzione operativa tran-nazionale dell’Occidente – distratto dal mantenimento degli interessi nazionali post-guerra fredda, dalla proliferazione delle vulnerabilità sistemiche causate dal dissesto della geoeconomia, dalla moltiplicazione di percezioni politiche di debolezza che hanno generato instabilità multidirezionali fuori dai teatri classici d’ingaggio (es. Ucraina e Libia) – ha innescato un processo di volatilità politico-diplomatica degli organismi internazionali (Onu, Nato, Osce), purtroppo corroborato dalla pochezza della Unione Europea, che ha disorientato il focus dell’azione e ridotto i mezzi idonei ad affrontare la nuova minaccia, mantenendo la sicurezza esclusivamente su base militare. Beninteso, utile, ma non sufficiente.

Terzo settore di attrito è pan-regionale. L’Isis opera in un contesto quasi ideale. Avendo rotto l’alleanza con Al-Qaeda, accusata di essere troppo debole e “pura di cuore”, funge da paladino di molti interessi del Medio Oriente Allargato trovando l’appoggio economico-militare nel potenziale neo-asse Libano-Siria-Giordania-Iraq, sfruttandone la scarsa preparazione militare, l’elevata corruzione delle istituzioni, forti divisioni settarie, quasi totale assenza di senso dello Stato e, non ultimo, il malcontento delle popolazioni locali sunnite contro i Governi centrali e i rischi d’infiltrazione sciita, israeliana e occidentale; cavalca la guerra tra Israele e Palestina facendo proselitismo nel Nord Africa (Algeria e Libia su tutti), in Iran e in Afghanistan; sfrutta le divergenze sul Kurdistan per entrare negli interessi vitali della Turchia (zona meridionale turca) in proiezione di Cipro, cercando di isolare anche ad Est l’economia di Israele; opera da vettore mediorientale per gli interessi geoenergetici del Kuwait e del Qatar, che tendono ad un allontanamento dai petrodollari sauditi dopo la ritirata strategica degli Stati Uniti, per aumentare di peso e prestigio.

L’Isis, quindi, è un collettore strategico di sub-strategie in nome e per conto di un sunnismo integrato fatto di rivendicazioni territoriali (unione geopolitica del Levante), di forza geostrategica e di geoeconomia.
Queste, però, sono anche le vulnerabilità dell’Isis. Andrebbero arginate con una cultura d’intervento basata sul combinato disposto tra il multilateralismo dei diritti umani e dell’integrità territoriale e il multipolarismo transatlantico con partnership strategiche (Lega Araba, Unione Africana, Unione Eurasiatica, ecc.), con una varietà di mezzi e una pianificazione strategica che eviti di trasformare l’ingaggio in uno scontro di ideologie o di inseguire “linee di faglia” ideologiche. L’Occidente ha già dimostrato di non essere in grado da solo di vincere la “guerra al terrore”, che in poco tempo è passata dall’essere la panacea per la costruzione del nuovo ordine mondiale a slogan statunitense.

Fondamentali saranno tre atti incisivi. Primo, una riqualificazione politico-diplomatica del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Secondo, lo sviluppo di un nuovo “concetto strategico” politico-diplomatico della Nato e dell’Osce, per evitare che diventino mere organizzazioni per “stati d’eccezione”. Terzo, visto che gli Stati Uniti non possono più fare tutto da soli e gli altri giocare da free rider, trovare alleati (non “coalizioni di volenterosi”) per riaprire il dialogo con la Russia (stabilizzazione panregionale), finalizzare il negoziato con l’Iran sciita sul programma nucleare (contenimento sciita negoziato sulla base della ricostruzione russo-americana), stabilizzare le zone marittime e di frontiera (Mediterraneo, Mar Nero, Mar Caspio e Golfo) dell’arco di crisi.

Ciò potrebbe isolare le vie di rifornimento geoenergetiche ed economiche dell’Isis, facendolo vedere per quello che è, ovvero un “petrocaliffato” che senza il controllo dei pozzi, ovvero senza soldi e armi, non è in grado di innestarsi nei cuori e nelle menti delle popolazioni, soprattutto quelle più povere e culturalmente disagiate.
Nel “multipolarismo imperfetto”, quindi, l’Isis non è un “cigno nero”, bensì una dinamica brutale del disequilibrio regionale e delle difficoltà, a volte sciocche, di allineamento strategico globale.


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