Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori pubblichiamo il commento di Pierluigi Magnaschi, già direttore dell’Ansa, ora direttore dei quotidiani Italia Oggi e MF/Milano Finanza.
Il dibattito sull’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (che impedisce il licenziamento dei dipendenti) si ripresenta con regolarità impressionante da decenni. È diventato ormai un rito totemico, destinato a non produrre effetti. Pura gesticolazione per non decidere nulla. Coloro che si oppongono all’abolizione dell’art.18 appartengono a due scuole. La prima, è contraria all’abolizione per partito preso. Poi ci sono i contrari perché, dicono, sono “ben altri” gli interventi necessari per far riprendere l’occupazione.
I più pericolosi, lo si sa dal 68, sono questi ultimi, i “benaltristi”, quelli cioè che, per non risolvere un problema, lo allargano a dismisura. Al contrario dei primi, che sono talebani nei loro convincimenti (“non c’è proprio spazio per discuterne”) ma almeno assumono una posizione identificabile e quindi anche contrastabile, i benaltristi sembrano più ragionevoli, meno prevenuti. Paiono addirittura disposti ad analizzare il problema che però, dicono, “è solo uno dei tanti problemi”. Essi non tengono in conto che, essendo l’art. 18 uno dei tanti problemi, si potrebbe cominciare a risolverlo. E ciò, ovviamente, non impedirebbe di risolvere anche gli altri problemi sul tappeto.
Non c’è dubbio che se si vuole ridurre la disoccupazione, bisogna che la domanda riprenda. Per raggiungere questo obiettivo, c’è un largo ventaglio di provvedimenti che infatti sono stati assunti o si stanno discutendo. Ma per capire come mai, fra le assunzioni, solo il 17% sono a tempo indeterminato (senza contare gli addetti alle imprese con meno di 15 dipendenti per i quali la precarietà permanente è la sola soluzione possibile) bisogna mettersi nei panni di un imprenditore che assume, certo, se c’è il mercato che tira ma anche se, assumendo, non ossifica la sua azienda, impedendole di adeguarsi alle alee della congiuntura e della concorrenza (che è internazionale, anche se produce rubinetti o stuzzicadenti di plastica).
Il dibattito sull’art.18 non tiene conto che i contratti a tempo indeterminato, oggi garantiscono solo le classi d’età più anziane che sono blindate da contratti precedenti iper garantistici. È, questo, un altro aspetto dello sfruttamento delle classi più mature a danno di quelle giovani che si percepisce chiaramente anche sul terreno previdenziale. I diritti non più sostenibili sono infatti pagati dalle più giovani generazioni che non hanno avuto la possibilità di accedere a questi diritti, proprio perché essi, oggi, non sono più economicamente sostenibili. Tali diritti, dovendo scegliere, sono oggi assicurati solo a coloro che, per ragioni anagrafiche, avevano avuto la possibilità di salire nel bus (oggi pieno) del welfare di un tempo. E gli altri, le classi d’età al disotto dei 35 anni? Beh, quelle, si attacchino.
Il recentissimo decreto Poletti, che prevede che si possa assumere una persona per tre anni (senza garantirgli, durante quel periodo di tempo, la sicurezza del posto di lavoro) introduce sicuramente un importante elemento di flessibilità ma non risolve certo il problema. Anzi, semmai, rischia di aggravarlo. Infatti, alla fine dei 36 mesi, il datore di lavoro ha due possibilità, ai sensi della nuova legge: o trasforma il contratto, da tempo determinato a tempo indeterminato, oppure lascia a casa chi ha lavorato con lui per i 36 mesi precedenti e che avrebbe potuto continuare a farlo, pur senza avere la garanzia del posto fino alla pensione.
Infatti, se il datore di lavoro, allo scoccare del terzo anno, non se la sente di assumere a tempo indeterminato il suo collaboratore, quest’ultimo perde il posto, addirittura “ai sensi di quella legge che avrebbe dovuto assicurarglielo fino al giorno della pensione”. Per quest’ultimo infatti non c’è nemmeno la possibilità di scegliere il male minore. I sindacati (e la legge Poletti) sono chiari, a questo proposito: o ce la fa a farsi assumere a tempo indeterminato,oppure torna a casa, dove, ammesso di riuscire a trovare un altro lavoro (cosa certo non facile) si troverebbe nella necessità di trovare, dopo una lunga ricerca, una altro lavoro “a trenta mesi”.
Per non voler prendere in considerazione dal possibilità dell’interruzione unilaterale del rapporto di lavoro, si costringono gli occupati a rinunciare al lavoro che avevano. In un mondo dove di eterno non c’è niente (con la sola eccezione dei dipendenti pubblici; ma non certo tutti gli occupati possono essere dipendenti pubblici) il problema da affrontare sarebbe quello dell’indennità in caso della risoluzione del contratto. Infatti, se non ci fosse una penale certa, immediata, predeterminata e quindi automatica, i dipendenti si esporrebbero all’arbitrio senza limiti del datore di lavoro. L’indennità invece rende oneroso l’eventuale arbitrio (e quindi lo limita) e, nello stesso tempo, fornisce al licenziato i mezzi per far fronte alle difficoltà del momento. Ma non volendo ammettere un principio (la possibilità di licenziare con indennizzo) si finisce per dissuadere l’imprenditore che, a certe condizioni, assumerebbe e, nello stesso tempo, per non indennizzare chi, lavoratore a tempo determinato (sono milioni) viene lasciato a casa. Bel colpo, dal punto di vista sociale.