Nessuno nega che l’economia italiana fatica a riprendere la via della crescita, ma un’inchiesta come quella pubblicata il 25 luglio scorso da Repubblica traccia un quadro della situazione che, pur veritiero nella sostanza, solo marginalmente riguarda la crisi in corso; essa descrive il “normale” processo di sviluppo, che due famosi economisti – Schumpeter e von Hayek – hanno chiamato “distruzione creativa”. Negli anni settanta una grande società di consulenza internazionale descrisse dieci casi di imprese di successo, ma pochi anni dopo molte di queste erano già in difficoltà. Il problema italiano non è la scomparsa di importanti imprese come sembra emergere dall’inchiesta, essendo un fenomeno “normale” per il mondo dell’economia, ma perché non ne nascono di nuove.
I MERITI DELL’ITALIA
Il sistema italiano nel suo complesso non è certo vitale come negli anni del dopoguerra, ma nell’ultimo lustro è stato capace di assorbire il grave shock della crisi finanziaria internazionale, di frenare la conseguente caduta del PIL e di riportare la bilancia estera in attivo nonostante la sopravalutazione dell’euro. Vi pare poco? Solo gli operatori esteri registrano questo successo e acquistano pezzi importanti della nostra industria. Perché i nostri imprenditori non lo fanno? Le diagnosi che si sentono sono tante. Due di esse continuamente ripetute è che gli italiani vivano al di sopra delle risorse e che il sistema delle imprese sia alla canna del gas. Le statistiche parlano chiaro: dal momento in cui l’euro è uscito dal rischio di collasso (ma non dai suoi gravi problemi) i risparmi delle famiglie e i profitti delle imprese sono restati a buoni livelli. Nel triennio 2011-2013 il risparmio della famiglie è salito infatti da 131 a 140 mld di euro e quello delle imprese, quelle sopravvissute alla crisi, è rimasto stabile poco a più di 120 mld. Non sono i livelli del passato, ma sono dati buoni anche comparati con quelli registrati dagli altri paesi. L’attivo della bilancia estera corrente è la più chiara testimonianza che l’Italia è capace di esportare e non vive al di sopra delle risorse. Ma allora dov’è la crisi?
I TORTI DELL’EUROPA
L’Europa ha ragione quando sostiene che il nostro problema è il disavanzo di bilancio pubblico e l’indebitamento dello Stato, ma ha torto se ritiene che in assenza di crescita si debba comunque azzerare il primo e riportare il secondo al 60% del PIL solo perché lo prescrivono gli accordi. La politica non è giusta perché lo dicono gli accordi, lo è se lo dice la realtà e questa parla chiaro: se aumenti le tasse, cedono i consumi e investimenti e le aspettative dei cittadini peggiorano. Lo stesso accade se redistribuisci il carico fiscale, come testimonia l’andamento del PIL dopo la decisione degli 80 euro in busta paga e l’aumento delle tasse sulle rendite finanziarie (e altre). L’Europa obietta che gli accordi non prescrivono l’aumento delle tasse, ma la riduzione delle spese. Perché allora non si cambiano gli accordi in tal senso? Da anni le autorità affermano che vedono la luce in fondo al tunnel, ma pochi ci credono. La maggiore tassazione è stata introdotta per ridurre il disavanzo di bilancio pubblico e il debito dello Stato per riportarlo aldi sotto dei massimi previsti, ma la spesa e l’indebitamento sono aumentati: la prima è servita per soddisfare istanze sociali interne e il secondo per pagare i debiti accumulati dallo Stato e per finanziare forme di intervento europee, come il fondo salva Stati. Se le spese interne fossero state investite in opere e in servizi pubblici, avrebbero creato occupazione. Se quelle esterne fossero state usate, ai sensi del Trattato di Maastricht, per aumentare il capitale della Banca Europea degli Investimenti, avrebbero potuto generare investimenti sei volte maggiori (secondo la leva finanziaria prevista dalla Banca). Con essa si sarebbe potuto finanziare da tempo anche i 300 mld di euro di opere pubbliche europee promesse da Junker. La politica finora seguita è in sé stessa sbagliata, ma lo è anche perché ha fiaccato le speranze di una ripresa. Si è creato un circolo vizioso tra le famiglie che risparmiano di più, le imprese che investono meno e il reddito, anche quello nominale, che non cresce; gli unici prezzi che aumentano sono quelli dei servizi pubblici i quali, essendo quasi tutti dei beni essenziali alla vita, decurtano il potere di acquisto dei cittadini.
COME SCONFIGGERE LA CRISI
In conclusione, è il settore pubblico e gli enti a esso collegati che vive al di sopra delle risorse ed è questa la grandezza che sta alla base della crisi. Quanto prima lo capiremo – forse è meglio dire quanto prima ci impegneremo a farlo – tanto meglio sarà. Se i cittadini facessero i calcoli di ciò che pagano per imposte dirette (leggano la denuncia dei redditi) e indirette (basta leggere le bollette di luce e gas) e ciò che ricevono in cambio, e se gli economisti lo spiegassero con parole semplici, forse la situazione cambierebbe. Ma siamo ancora lontani dall’aver intrapreso questa strada e, invece, si preferisce porre al centro della politica la redistribuzione del reddito e della ricchezza. Questa politica viene attuata in nome di un’equità sociale che non raggiunge lo scopo perché la povertà è aumentata, raramente l’istanza viene soddisfatta dando assistenza, occorre invece aumentare le opportunità di lavoro e queste continueranno a mancare finché dominerà la sfiducia.