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Ecco perché gli Usa di Obama guardano all’Africa

L’iniziativa Us-Africa Leaders Summit, fino al 6 agosto alla Casa Bianca, potrebbe segnare il passaggio ad una politica di grande respiro da parte dell’Amministrazione Usa. E in una lunga intervista all’Economist dall’Air Force One, il presidente degli Stati Uniti ha indicato le linee della sua azione.

GLOBALISMO GEO-ECONOMICO

Il presidente non è preoccupato dalla presenza di Pechino nel Continente Nero. Contro chi propone un nuovo containment del capitalismo cinese, Obama ha sottolineato che “più si è, meglio è”, perché gli accordi Cina-Africa servono a sbloccare il gigante addormentato, a immetterlo nel mercato mondiale. Sullo sfondo di questo globalismo che porta la traccia della formazione geo-economica della politica estera obamiana, il valore aggiunto e la differenziazione americana è nell’aiutare gli Stati a superare la loro dimensione nazionale e creare mercati regionali con standard comuni. Punto di partenza in questo caso sembra apparire l’Africa Orientale: Kenya, Tanzania ed Uganda sono i Paesi citati da Obama nell’intervista come partner nello sforzo di regionalizzazione a guida Usa.

L’ATTIVISMO INDIANO

Un altro aspetto dell’intervista merita attenzione laddove Obama, oltre a rifiutare il bipolarismo sino-americano in Africa, sottolinea come la mancanza di strategie di penetrazione Usa potrebbero avvantaggiare imprese tedesche ed indiane. Germania ed India sono infatti le due potenze che hanno maggiormente accelerato i piani di sviluppo della politica: la prima a partire dal suo nucleo di cooperazione internazionale Nord-Sud, la seconda sfruttando anche i legami etnici con la diaspora in particolare in Africa australe e orientale. Secondo Richard Rossow, esperto di India al CSIS, le imprese indiane si segnalano per la maggiore capacità di muoversi nei complessi labirinti dell’economia (e della burocrazia) degli Stati indiani. E in alcuni casi (si veda l’accordo Bharti Airtel-Ibm) hanno già dimostrato una elevata complementarietà con i concorrenti americani. Soltanto nel settore estrattivo e solo nelle ultime settimane, l’attivismo indiano si è manifestato con la siderurgica ArcelorMittal che ha acquisito miniere di ferro in Guinea mentre il consorzio statale International coal ventures (Icv) è entrato nel comparto carbonifero del Mozambico.

LA QUESTIONE DELL’EX-IM BANK

Il tema in prima pagina oggi dal Financial Times è una questione toccata da Barack Obama nell’intervista, ovvero il rifinanziamento della Ex-Im Bank, il gruppo bancario pubblico che finanzia le esportazioni. I congressisti conservatori, pressati dal Tea Party, hanno impostato una polemica contro l’ente statale che ora rischia di scomparire per mancanza di finanziamento. Per Obama si tratterebbe di un errore che metterebbe le imprese americane in grande difficoltà nella dura competizione che si apre in Africa.

IL RUOLO DELLA NATO
Sul punto della sicurezza, per Obama la Nato è l’organizzazione-chiave per entrare in partnership con i Paesi africani. Una “comprehensive partnership” sullo stile dell’Unione europea è quello che serve secondo il capo della Casa Bianca. Non solo dunque lotta al terrorismo. Un’offerta politica a quelle nazioni europee che hanno maggiori tradizioni africane, in particolare alla Francia, che attraverso la Nato potranno continuare a veicolare i loro interessi. E un segnale di riassicurazione alle opinioni pubbliche del Continente Nero, preoccupate dal tema dell’ingerenza strategico-militare dell’Occidente. In particolare in Sud Africa, dove la visita di qualche mese fa del presidente Usa venne accompagnata da manifestazioni di protesta.

IL CASO MUGABE

A proposito di Sud Africa, nell’intervista all’Economist Obama ha toccato la questione dello Zimbabwe. Il Paese è da decenni guidato dal dittatore Robert Mugabe, che non è stato invitato al Summit e la cui politica ha sollevato forti critiche in Occidente (soprattutto a Londra, che ancora cerca di svolgere un ruolo post-imperiale nello spazio sudafricano). Il Sud Africa di Zuma si è però opposto ad aumentare la pressione sul vicino settentrionale, un atteggiamento che Obama spiega nell’ottica della tradizione terzomondista-neutralista, un retaggio che avrà bisogno di un passaggio generazionale per essere superato e fare del Sud Africa una potenza più efficace sulla scacchiera regionale.

L’INTERNAZIONALISMO USA

E’ probabilmente in questo snodo, a ridosso delle rotte del Capo e di un mercato minerario-energetico tra i più ricchi al mondo, che si verificherà il destino di un progetto “Nato globale” capace di rompere gli steccati Nord-Sud legati in parte alle tradizioni della Guerra Fredda, e in parte ereditati e riciclati nel metabolismo dei Brics e delle potenze emergenti. Una grande iniziativa di soft power che per ora vede al centro gli Stati Uniti, con programmi studenteschi e investimenti nelle nuove generazioni urbane. Numerosi i think tank attivi su questo fronte, come l’Atlantic Council e il Brookings Institute, che da tempo chiedevano un segnale di apertura all’Africa tale da riannodare i fili intessuti nel secondo mandato Clinton, quello successivo alla strage in Rwanda (fallimento, questo, della politica americana che ancora pesa nella formazione e nella mentalità di personaggi-chiave della prima linea di decision makers Usa come Susan Rice).


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