Secondo Vasily Kashin, senior fellow all’Istituto di Studi del Far East e al Center for Analysis of Strategies and Technologies (Cast) di Mosca, l’atteggiamento cinese nel corso della crisi in Ucraina-Crimea è indice di una notevole fiducia strategica di Pechino verso il vicino settentrionale. Alla fine Mosca, pressata dalla nuova linea anti-russa che emerge in Europa, si rivolgerà ai vicini asiatici, anche perché in Asia, a differenza di quanto accade a ovest, “la Russia è molto meno preoccupata dagli sforzi di Washington di rilanciare le proprie alleanze militari, perché tali sforzi sono considerati più che altro un problema per la Cina“.
MOSCA POCO RICONOSCENTE
Le affermazioni di Kashin sono un brutale reminder del fatto che la riconoscenza non è moneta corrente negli affari internazionali. La leadership cinese a marzo-aprile si è esposta su una questione sensibile, quella della rottura dell’ordine incentrato sulla sovranità statale, che appariva irrinunciabile nell’ideologia “sovranista” del Pcc. Anche per non stimolare, con il tema delle minoranze, sentimenti anticinesi nei Paesi dove la comunità oltremare Han è potente e diffusa. Gli accordi sul gas di maggio sembravano cementare questa vicinanza e nella fiorita retorica delle assise del ministro degli esteri Wang Yi si era addirittura al “punto più alto” nella storia dei rapporti tra i due Paesi.
ABE ROMPE IL FRONTE ANTI-PUTIN?
Non essere troppo dipendenti dalla Cina è imperativo per Mosca. E in questo quadro rientra l’offerta implicita del governo nipponico, che è stato tra gli ultimi e più cauti nel condannare l’operato russo in Ucraina, e comunque mantiene ad oggi rapporti di alto profilo con il potente vicino. Sul tavolo ci sono diversi dossier da superare, come quello riguardante le Isole Curili, dove una vociante minoranza di “falchi” russi potrebbe cedere alla fine, avverte Kashin, una volta soddisfatta dalla postura aggressiva mostrata da Putin con l’annessione della Crimea. Un atavismo della Seconda Guerra Mondiale (quando le truppe di Stalin presero questo pegno di terra a nord di Hokkaido mentre il Giappone era già in ginocchio) che, se sbloccato, potrebbe soddisfare il risorgente nazionalismo giapponese. E aprire altri capitoli di collaborazione.
SAKHALIN, SNODO DEL GAS
Il progetto Sakhalin II, da 20 miliardi di dollari, dal 2003 al 2009 ha realizzato sull’isola al largo delle coste orientali della Siberia una struttura per la liquefazione e l’esportazione del gas, che ha come principali clienti, legati con accordi di fornitura ventennali, le compagnie energetiche giapponesi. Nel momento in cui il Giappone pensa di rilanciare la produzione nucleare, paradossalmente aumentano le chance di cooperazione con Mosca, perché fondate su esigenze autonome e paritarie e non sulla dipendenza energetica di Tokyo. Nel board dell’agenzia di sviluppo di Sakhalin Gazprom ha il 50%, Royal Dutch-Shell il 27,5%, Mitsui il 12,5% e Mitsubishi il 10%. Numerosi gruppi ingegneristici del Sol Levante (Chiyoda e Toyo soprattutto) sono stati coinvolti nei lavori sull’isola, ma l’impressione è che avrebbero potuto avere di più se al tempo dell’assegnazione delle commesse i rapporti politici fossero stati migliori.
SE TOKYO PRENDE IL POSTO DI BERLINO
In definitiva Tokyo potrebbe diventare la spalla “occidentale” dello sviluppo energetico e industriale dello sterminato Oriente russo, sostituendo la Germania i cui ricchi affari con Mosca sono messi a repentaglio dall’atteggiamento del governo Merkel sull’Ucraina. Un’economia con una base tecnologica solida e un sistema politico-culturale a prova di “regime change” da una parte; dall’altra, una convergenza significativa, strategica e non temporanea, sulla necessità di contenere la Cina nel Pacifico occidentale. Di più, la rendita di posizione aperta dalla svolta antirussa di Berlino (e di Parigi e Bruxelles pressate da Londra) apre a Tokyo la possibilità di fare un lavoro geopolitico molto lucroso, come mediatore tra la Russia e l’Occidente su questioni di rilevanza strategica ed economica.