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Quella solitudine in cui ci riconosciamo

Nell’alternarsi di partenze e arrivi, da un luogo all’altro, un trasloco dopo l’altro, anno dopo anno, l’uomo non fa altro che vedere scorrere di fronte a sé i fotogrammi di stanze che si svuotano di persone e cose. A seconda delle corrispondenze e dei legami stabiliti con gli altri esseri, però, la luce che, come pulviscolo, si deposita illuminando gli involucri vuoti è diversa anche se fa sempre un vuoto che risucchia lo stomaco da dentro.
Talvolta è calda, evocativa, ha lo stesso effetto dello scorrere della matita sul foglio che era stato calcato dall’incedere della penna su quello che gli stava sopra, capace di svelare il non detto, il precipitato dell’anima sul diario più intimo. Talvolta è solo un puntino di luce, come quella al centro dello schermo dei vecchi televisori a tubo catodico quando si accendeva o si spegneva l’apparecchio. Capace di dividere l’umanità in ottimisti e pessimisti.
Il fatto è che anche la luce più divina non fa altro che sbozzare l’essere dal pieno dell’indistinto come l’incisore con il sovrapporsi delle lunghezze d’onda. E nell’enuclearlo, nell’evidenziarne i confini fisici ne svela la solitudine dell’anima. La distanza di ciascun essere da un altro essere. E quella solitudine che riconosciamo.


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