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Tutte le preoccupazioni di Hollande

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class e dell’autore, pubblichiamo l’analisi dell’editorialista Guido Salerno Aletta uscita sul quotidiano MF/Milano Finanza diretto da Pierluigi Magnaschi

Le dimissioni del Ministro dell’economia francese Montebourg hanno determinato una crisi di governo che sembra essersi già conclusa, in un lampo. E’ sembrata poco più che un semplice rimpasto, visto che il confronto sul merito della questione, le politiche di austerity da lui ritenute inaccettabili, è stato immediatamente tacitato dal coro di consensi espresso dalla business community nei confronti del reincaricato Presidente Valls. All’apparenza, l’area della sinistra socialista che reclamava un allentamento delle politiche di rigore avrebbe ricevuto una sonora legnata dall’ala riformista che rievoca le ricette blairiane di vent’anni fa.

L’atteggiamento liquidatorio della vicenda sembra non tener conto delle prospettive aperte dalla vicenda: innanzi tutto, era stata volutamente provocatoria l’uscita sulla stampa del Ministro dell’economia che in un articolo su Le Monde, domenica scorsa, dichiarava apertamente di volersi riprendere libertà di manovra politica. D’altra parte, era rimasta senza risposta, ed anzi aveva provocato vivo disappunto nel Presidente del Consiglio, una sua precedente nota personale indirizzata segretamente al Presidente Hollande, in cui rimarcava la distanza tra le politiche proclamate e le scelte concrete del governo.

Sembra essere un passaggio verso la campagna elettorale che si svolgerà tra due anni, quando si dovrà eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Francois Hollande non ha, né avrà, vita facile: gli si è aperto un fronte interno, a sinistra, mentre deve fronteggiare la crescita esponenziale del Fronte Nazionale che maramaldeggia nello sbriciolamento della centrodestra, dilaniato da scontri interni dopo la sconfitta di Sarkozy ed ulteriormente indebolito dalle vicende giudiziarie che di recente hanno coinvolto l’ex-Presidente. Anche Christine Lagarde, ora Direttore del Fmi, è in difficoltà: è stata accusata di non aver sorvegliato adeguatamente lo svolgimento dell’arbitrato da lei concesso da ministro delle finanze durante la Presidenza Sarkozy per definire la vertenza miliardaria che opponeva Bernard Tapie al Credit Lyonnaise. Non è irrilevante notare che la Lagarde sia stata di recente la più autorevole sostenitrice di iniziative antideflattive in Europa: ancora una volta, come già accadde con Dominique Strauss-Kahn che avrebbe altrimenti potuto aspirare al ruolo di candidato presidenziale per sfidare Nicolas Sarkozy, carriere politiche e vicende giudiziarie si annodano.

Sulla questione delle politiche antirecessive, la presidenza Hollande sembra essere isolata: a destra deve fare i conti con la crociata anti Euro, guidata dal FN di Marina Le Pen; nel Partito socialista si è ritrovato un Ministro dell’economia che contesta apertamente la linea dell’austerity; nell’entourage del centrodestra, c’è il prestigio della Lagarde a fargli ombra. A dare manforte a coloro che sostengono la necessità di non aggravare ulerormente il deficit di bilancio c’è una constatazione oggettiva, ma non nuova: anche la Francia, almeno dal 1990, ha sempre avuto un bilancio in disavanzo ed il suo debito pubblico è passato così dal 35,2% del Pil al 93,5% del 2013, aumentando di 58,3 punti percentuali. Il Pil in termini reali, invece, è cresciuto solo del 34,8%. In Germania, le statistiche sono disponibili solo dal 1991 per via del processo di unificazione: il debito pubblico è passato dal 39,5% di quell’anno all’80% nel 2013, con un incremento di 40,5 punti percentuali, mentre il Pil in termini reali è cresciuto del 30%. Ai 18 punti percentuali di maggior debito pubblico/pil accumulato dalla Francia rispetto alla Germania nel periodo 1990-2013 è corrisposta una maggior crescita del pil reale francese rispetto a quello tedesco di appena 4,8 punti. Analizzando poi l’andamento del reddito attribuito al lavoro industriale, si rileva che nel 1995 la percentuale era rispettivamente pari al 68% in Francia e al 78% in Germania. Nel 2008, invece, in Germania era crollato al 67% mentre in Francia era salito al 70%: sta qui la competitività tedesca. I saldi  della bilancia dei pagamenti correnti in Francia mostrano, tra il 1990 ed il 2000, un saldo attivo cumulato pari a 11,9 punti percentuali del pil, mentre la Germania per via della riunificazione aveva accusato un passivo di 7,9 punti. Tutto si è capovolto negli anni 2001-2008: l’attivo cumulato francese è crollato ad appena 0,5 punti del pil, mentre quello tedesco è salito a ben 33,5 punti. Sono questi gli effetti combinati, a favore della Germania, derivanti dalla riduzione della remunerazione del lavoro industriale e della impossibilità di effettuare svalutazioni per via della introduzione dell’euro.

Non c’è quindi solo una questione elettorale dietro le critiche alla politiche di austerity in Francia. La business community, è ovvio, vuole una riduzione delle imposte, degli oneri previdenziali e dei costi del lavoro. Servono per rimediare allo squilibrio più pesante, quello di conti commerciali della Francia verso la Germania: nel 2013, la Francia è sata il primo partner commerciale della Germania, avendo importato beni per 100 miliardi di euro, ma avendone esportato appena per 64 miliardi. E’ stata il secondo partner per valore dell’attivo dell’interscambio tedesco, con 36 miliardi di euro, rispetto ai 40 miliardi degli Usa.

La Germania, dapprima con la Riunificazione e quindi con l’allargamento ad est della Unione europea, ha avuto a disposizione manodopera abbondante ed basso costo: l’Agenda 2000 di Schroeder non è che una tessera di un più ampio mosaico. La Francia non ha potuto fare altrettanto: le sue tradizionali relazioni economiche con il nord e il centro Africa non hanno potuto beneficiare della integrazione dei mercati e della libera circolazione. Mentre la Francia ha perso le storiche colonie politiche, la Germania se ne è ricostituite di nuove, sociali ed economiche, all’interno ed oltre frontiera.

Se la Francia dovesse adottare politiche salariali fortemente penalizzanti, soprattutto flessibilizzando il mercato del lavoro nel settore dei servizi come è stato fatto in Germania con la introduzione dei minijobs che occupano oltre 7 milioni di persone, salterebbe anche la già fragile coesione sociale che è quotidianamente incrinata nelle banlieue: si aggraverebbero le disuguaglianze che già oggi penalizzano i giovani delle minoranze musulmane provenienti dalle ex-colonie. Sarebbe altro olio sul fuoco.

Gli aggiustamenti del disavanzo pubblico, delle dinamiche salariali e della bilancia commerciale incidono su equilibri complessi. Per questo sono tanti in Francia, a destra come a sinistra, ad essere profondamente preoccupati delle politiche di austerity. Non si governa con i tweet, né bastano gli applausi a scena aperta degli imprenditori delusi da una fredda estate e timorosi di un gelido autunno per mettere in carreggiata un governo. Non si tratta solo di avere a cuore le imprese francesi, come ha affermato con enfasi il Presidente reincaricato Valls: passare dalla crisi economica a quella sociale, è questione di un attimo.



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