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Vi spiego perché questa Europa conduce gli Stati al degrado

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori pubblichiamo il commento di Paolo Savona, apparso sul quotidiano Italia Oggi

L’Ocse, come la Commissione Europea, non rinuncia ai vecchi vizi di distribuire pagelle con metri di valutazione opinabili e ha fatto sapere che Grecia, Irlanda e Spagna, i paesi che hanno attraversato la peggiore crisi, hanno attuato percentuali di riforme molto più elevate rispetto alla media europea, mentre Francia e Germania hanno ottemperato in misura decisamente minore; l’Italia è prossima alla media. Da queste valutazioni vengono tratte due prescrizioni politiche; una pro-europea, chi ha fatto le riforme sta meglio di chi non le ha fatte, e una critica dei modi in cui alcuni paesi, Germania in testa, mal si adattano alla logica comune europea. E’ forse inutile aggiungere che le critiche per il non fatto o malfatto, riguardano soprattutto il mercato del lavoro; viene invece ignorate le mancate riforme del mercato finanziario, all’origine della più grave crisi postbellica e in parte anche della sua continuazione.

Le pagelle migliori sono sempre le statistiche, nonostante i loro difetti. Per coerenza nella raccolta e sintesi nella presentazione, quelle dell’Economist possono essere considerate le più adatte allo scopo. Da esse si evince che i paesi che hanno fatto le maggiori riforme sono anche quelli che hanno i deficit di bilancio pubblico e la disoccupazione più elevati: la Grecia ha un deficit pari al 5,5% del pil e una disoccupazione del 27,3%; la Spagna rispettivamente il 5,7% e il 15,1%; in l’Irlanda il deficit è anche più elevato (7,6%), ma la disoccupazione è stata recuperata più rapidamente (12,6%).

Come ai governanti non sfugge la perversa relazione tra deficit elevato e disoccupazione divenendo il cuore della politica europea, così non dovrebbe sfuggire quella tra vincoli europei e mancata crescita, nonostante quest’ultima sia la ratio dei Trattati. I parametri di Maastricht sono stati resi sempre più stringenti per colmare le debolezze di un«euro senza Stato» e il loro rispetto si è sostituito ai principi fondanti – pace e benessere – dei Trattati, tramutando l’Unione Europea in una suocera cattiva invece di una madre benevola, come era stato promesso.

Le smentite che la realtà si è data carico di fornire sull’esistenza di una relazione positiva tra riforme fatte e crescita del reddito e dell’occupazione, dato che i problemi della crescita sono più ampi e di matrice geopolitica, non hanno indotto l’Europa, che patisce l’influenza dei tedeschi e di pochi altri che la pensano come loro, a cambiare politica e si continua a imporre l’azzeramento dei deficit pubblici e la riduzione dei debiti statali come principale obiettivo. I gruppi dirigenti italiani, non solo quelli della politica, continuano a ripetere che i vincoli europei debbono essere e verranno rispettati, chiedendo solo flessibilità temporale nell’attuazione. La posizione è realistica, ma il realismo non cancella la natura errata di questa politica.

Continuando su questa strada, soprattutto se accompagnata da redistribuzioni del reddito e della ricchezza incapaci di attenuare una povertà in crescita, l’Italia è destinata al degrado. Non vengono cioè affrontati i problemi di fondo che impediscono all’Europa di crescere: la parificazione del mandato della Bce a quello della Federal Reserve americana; il rilancio della Bei nell’esercizio della sua funzione, prevista dal Trattato di Maastricht, analoga a quella svolta dalla Banca mondiale; la sistemazione dei debiti pubblici in eccesso al 60% del Pil (se si vuole rispettare questo parametro-mito) per ripartire su basi comuni nella gestione monetaria e finanziaria dell’Unione.

Occorre un’azione culturale forte che solo un approccio scientifico a lungo meditato e praticato può portare avanti. La logica vorrebbe che solo chi ha combinato i guai fosse messo da parte e chi li aveva previsti e denunciati fosse chiamato a rimediare; non bastano allo scopo entusiasmi e improvvisazioni giovanili. Guido Carli ripeteva che un’idea ben posta, sovente considerata inutile, fa più rumore di un pugno sul tavolo, oggetto di maggiore considerazione. È da un’idea ben posta che potrà venire la svolta nella conduzione economica e sociale europea, perché essa è più difficile da smontare di un pugno sul tavolo. Ma occorre chiamare a raccolta chi ha il prestigio di farlo per scienza, coscienza ed esperienza; se si respinge questo elementare principio i problemi resteranno tali e quali.


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