Le vicende di questa ultima settimana segnano per l’Italia una fase nuova nella più lunga crisi economica mai vissuta dalla Unità: è ormai chiaro il fallimento della politica economica degli ultimi tre anni. Il rigore serve ma non basta. Anzi, non serve affatto quando ci sono squilibri strutturali, deficit di competitività da correggere.
IL DIBATTITO SULLE RIFORME
Sulle riforme il dibattito è aperto, perché non c’è ancora un quadro definito: ci sono questioni di metodo e di merito, a livello europeo e nazionale, che vanno ancora discusse. Ci sono due sole certezze: la prima è che il 2014 non sarà l’anno di svolta della strategia condotta sin dalla metà del 2011, che avrebbe dovuto coniugare il risanamento delle finanze pubbliche con la ripresa economica. I dati del pil riferiti al secondo trimestre hanno invece gelato le speranze: con il -0,2% siamo ancora in recessione. Il secondo dato inequivocabile è che le ricette standardizzate, meccaniche, usate in questi anni per uscire dalla crisi, così come i modelli econometrici usati per prevedere i comportamenti economici sono inutili, fuorvianti e dannose. Sono sempre le stesse idee, figlie del pensiero unico globale, quelle del mondo piatto.
IL PERICOLO DIETRO LA NUOVA GLOBALIZZAZIONE
Coloro che sono stati incapaci di capire e di fermare il collasso globale, adesso vorrebbero imporre riforme uguali dappertutto. Questa è il pericolo sotteso alla nuova fase di globalizzazione e di federalizzazione dell’Europa: passare dalla uniformità dei prodotti a quella dei produttori. Regole sociali uguali per tutti: dalla sanità alla previdenza, dalla istruzione al fisco, dalla regolazione delle nascite ai rapporti tra sessi. Come già è accaduto con il vincolo al pareggio di bilancio introdotto nella nostra Costituzione e con il Fiscal Compact si rischia la creazione, descritta da Giuseppe Guarino, di sistemi giuridici robotizzati: innescano interventi automatici che alimentano le distorsioni che dovrebbero correggere. Si estendono regole perfettamente coerenti con le strutture di una società ad altri contesti, completamente differenti, peggiorando i problemi esistenti: quelli della Grecia non sono quelli della Spagna, così come quelli della Argentina non sono affatto paragonabili a quelli dell’Italia, mentre le ricette delle Troike sono invariabili. Solo leggendo i dati ufficiali che riguardano il nostro Paese e comparandoli con quelli dei nostri partner possiamo comprendere perché le politiche economiche standardizzate, compresa l’ideologia ultraventennale della riduzione del debito pubblico attraverso l’aumento del saldo primario, stiano distruggendo l’Italia, inesorabilmente, anno dopo anno.
PERCHÉ L’ITALIA NON CRESCE
Quando si afferma che l’Italia ormai da più di vent’anni cresce meno dei suoi competitor, si dice il vero. Ma non si spiega perché. La vulgata dice che la colpa è del mercato del lavoro, costi troppo alti e rigidità in uscita. Si aggiunge che ci sono tasse troppo elevate ed insostenibili orpelli normativi ed amministrativi. I soliti lacci e lacciuoli di cui ci si lamenta da sempre. In questi anni, invece, non si è mai discusso abbastanza dell’effetto devastante che ha avuto sulla crescita la politica di bilancio adottata per ridurre il debito pubblico mediante la creazione dell’avanzo primario ed ancor più dell’effetto depressivo sull’intera economia che deriva dall’effetto di traino sul costo del credito indotto dai tassi di interesse reali pagati su un debito pubblico eccezionalmente elevato.
L’INFLUENZA DELLE DECISIONI MONETARIE
Quali che siano le genesi di un debito pubblico così abnorme, non c’è dubbio che per ben tre volte siamo stati penalizzati da decisioni monetarie internazionali: in primo luogo, abbiamo subito gli effetti della feroce stretta americana inaugurata dal Governatore della Fed Paul Volker nel 1979, che ha impedito all’Italia di proseguire con una politica di tassi negativi che datava dal 1973, anno della prima crisi petrolifera. Fu così che il tasso reale di interesse sul debito pubblico italiano arrivò alla media del 4,5%: per il Bot people cominciò la bonanza, un trasferimento di risorse dal lavoro e dalla produzione alla rendita ed agli evasori fiscali che non è mai cessata. Lo Stato italiano, quindi, usa la leva fiscale per alimentare la crescita della ricchezza finanziaria ad un ritmo nettamente superiore rispetto a quello dell’economia reale.
QUESTIONE DI TASSI
Successivamente, nel 1991, per rispondere all’aumento dei tassi di interesse deciso dalla Bundesbank per importare capitali dall’estero necessari per finanziare i costi della riunificazione tedesca, i tassi reali pagati sul debito pubblico italiano sono stati portati ad oltre il 6%. Solo nel 1998, dopo essere rientrati nello Sme con un rapporto di cambio assolutamente sfavorevole rispetto alle 1250 lire per 1 marco che avevamo toccato nel 1995, i tassi di interesse reale pagati sul debito sono tornati attorno al 3%. Chi rimprovera all’Italia di non aver approfittato a sufficienza dei bassi tassi di interesse per ridurrre il debito pubblico trascura che è proprio negli anni che vanno dal 2001 al 2007 che abbiamo accumulato un avanzo primario positivo per ben 160 miliardi di euro, mentre la Francia e la Germania segnavano un dato negativo, rispettivamente di 47 miliardi e di 33 miliardi.
RAPPORTO DEBITO/PIL
Inoltre, abbiamo diminuito il rapporto debito/pil di cinque punti percentuali (passando dal 108% al 103,3%), dopo averlo già ridotto di oltre dodici punti tra il 1994 ed il 2000 (scendendo dal 121,2% al 109%) mentre la Francia e la Germania passavano rispettivamente dal 49,2% e dal 48% del 1994 al 64,2% ed al 65,4% del 2007. Mentre l’Italia ha ridotto il rapporto debito/pil di oltre 17 punti, la Francia lo ha peggiorato di 15 punti e la Germania di oltre 17 punti. Chi afferma che l’Italia si è comportato da cicala, mentre la Germania è stata una formichina dice il falso, ignorando la realtà. Questo sforzo di risanamento ha avuto un costo rilevante: una minore crescita, con minori investimenti pubblici, maggiori tasse che disincentivano gli investimenti privati.
UN DEBITO PIÙ CARO
E, comunque, l’Italia ha pagato una montagna di interessi ed un tasso comunque più elevato rispetto a Francia e Germania, penalizzando anche per questa via il credito erogato alle imprese ed alle famiglie italiane: solo negli anni della crisi, fra il 2007 ed il 2013, il debito ci è costato un quarto del pil: 444 miliardi di euro, pagati con le tasse. Con la crisi, a partire dal 2007, il rapporto debito pubblico/pil è tornato a crescere: a fine 2013, secondo i dati del Fmi, è aumentato di 25 punti in Francia, di 14 in Germania e di 26 in Italia. La verità, ancora una volta, è nelle cifre: il debito pubblico francese è aumentato di 611 miliardi di euro, quello tedesco di 527 miliardi, mentre quello italiano di appena 392 miliardi.
COSA È ACCADUTO
È accaduto che, per recuperare subito l’avanzo primario, le manovre fiscali hanno penalizzato la crescita: il pil espresso in valori reali, sempre nel periodo che va dal 2007 al 2013, è cresciuto in Francia di 13 miliardi ed in Germania di 80 miliardi, mentre in Italia è crollato di 110 miliardi di euro. Questo è stato l’effetto recessivo delle manovre di bilancio: distruggere pil per fabbricare debito. Se ora il Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan si è affrettato a comunicare che non ci sarà una manovra correttiva per l’anno in corso, è perché ormai l’hanno capito pure i sassi che la leva fiscale non funziona più: non solo ogni tassa ed ogni taglio di spesa hanno un effetto depressivo, ma basta l’annuncio di una manovra per bloccare ancor più l’economia.
IL RIGORE NON BASTA
Occorre cambiare strada: il rigore non basta, anzi non serve. Il Premier Matteo Renzi è convinto che sia indispensabile una piena governabilità, di cui si beneficerà soprattutto nella prossima legislatura, dopo una riforma costituzionale che tolga di mezzo il Senato e una legge elettorale che garantisca un alto premio di maggioranza al partito che sarà più votato, senza forzare alleanze elettorali che si trasformano in rissose coalizioni di governo. Il Governatore della Bce Mario Draghi, constatando come il quadro europeo sia ancora troppo frammentato, ritiene invece che non si possa aspettare, e che sia giunta l’ora di trasferire all’Unione europea quote di sovranità. Delle riforme strutturali c’è un disperato bisogno, soprattutto in Italia: dalla maggiore flessibilità del mercato del lavoro alla accelerazione dei tempi della giustizia civile.
ABBATTERE SUBITO IL DEBITO PUBBLICO
Ancora una volta si scantona dal vero problema dell’Italia: il debito pubblico eccessivo. Va abbattuto subito, trasformando il Demanio fruttifero in un Fondo patrimoniale le cui quote di proprietà sono cedute in cambio del debito. Illustri economisti, come Roberto Poli che è intervenuto lunedì scorso con una intervista in prima pagina sul Corriere della Sera, stanno convergendo su questa ipotesi, già fatta propria da trenta deputati del Pd e da Marco Carrai, professionista molto vicino al Premier, che lo ha apertamente dichiarato su queste colonne. E ora sembra che veramente il premier abbia capito che non c’è davvero altra strada, forzando anche le titubanze del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Il Fondo degli italiani, la pietra angolare della manovra Tagliadebito che questo giornale, come le altre testate del Gruppo Class e l’associazione L’Italia c’è, propongono da quattro anni al dibattito politico ed economico, sembra stia per vedere la luce. E per questo motivo che ripubblichiamo l’ultima degli appelli lanciati da queste colonne il 15 febbraio scorso. Era indirizzato a Matteo Renzi, alla vigilia del suo insediamento a Palazzo Chigi. Lo ripubblichiamo perché ora che si appresta a prendere decisioni vere per tagliare il debito deve guardarsi dai veri frenatori che resistono.
CHI NON VUOLE CAMBIARE
Resistono i rentier, quelli che non hanno nessuna voglia di cambiare registro: a loro va benone così, incassare le cedole sul debito pubblico, ogni mese, denari versati da chi paga le tasse. Una montagna di debiti pubblici frutta montagne di interessi: un sogno garantito da tutte le Troike del mondo. Partecipando alla gestione del Fondo, banchieri, assicuratori, gestori di fondi pensione e di investimento dovrebbero impegnarsi, magari rischiare, per valorizzare i beni, le aziende ed i diritti in concessione conferiti al Fondo patrimoniale. Dovrebbero andare a spulciare i registri, fare pulizia di tante camarille, mettersi contro tanti interessi costituiti, piccoli e grandi. Meglio denunciare l’inefficienza, le tante nequizie elencate puntigliosamente, lasciando che tutto marcisca. Meglio chiacchierare di riforme, proponendone una nuova ogni giorno. Tanto, stavolta, ci pensa Renzi. «Quieta non movere»: detto in italiano, lavorare stanca.