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Art. 18: il problema non è il reintegro, ma l’incertezza sulle conseguenze del licenziamento

Nel dibattito di questi giorni non è affatto agevole capire cosa davvero ci sia dietro lo scontro in corso sull’art. 18. Da un sondaggio pubblicato ieri da Il Corriere della Sera, è emerso che quasi la metà degli intervistati non conosce in dettaglio la questione, né i contenuti della norma.

In buona sostanza, l’art. 18 disciplina il diritto del lavoratore ad essere reintegrato nel posto di lavoro e di ottenere un risarcimento, una volta che il giudice abbia accertato che il licenziamento è stato comminato senza i presupposti richiesti dalla legge.

Le ipotesi di licenziamento che generano maggiore contenzioso fra datori e sindacati sono quelle del:
–  licenziamento per giusta causa, che il datore può intimare con effetto immediato, senza preavviso, quando il lavoratore abbia commesso una mancanza particolarmente grave agli obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, così grave da minare irrimediabilmente il rapporto di fiducia esistente;
–  licenziamento per giustificato motivo soggettivo, che il datore può intimare nel rispetto di un termine di preavviso, quando il lavoratore abbia commesso un inadempimento di minore gravità, ma comunque così grave da meritare la sanzione massima del licenziamento;
–  licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che il datore può comminare per ragioni economiche, legate all’andamento generale del mercato e dell’impresa o alla necessità di riorganizzare e ristrutturare l’azienda.

Definizioni più precise si possono trovare qua.

Il diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro e di ricevere un indennizzo di una certa entità sussiste solo per le aziende che impiegano più di 15 addetti.
Si tratta, secondo i più recenti rilevamenti, del 57,6% del totale dei lavoratori (senza contare autonomi, dipendenti pubblici, gli impiegati nel settore agricolo e i dipendenti a tempo determinato) e del 2,4% delle aziende. Una platea di lavoratori che, rispetto al 2000, si è ampliata in maniera ragguardevole.

Come saprete già, l’istituto del reintegro non si applica ai sindacati, né agli altri enti che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto.

Il problema del dibattito in corso è che sconta una dose di preconcetti e di ideologia decisamente superiore a quella che caratterizza gli altri confronti a cui siamo abituati.
Ed è inevitabile, perché su una questione come questa si può immolare la vecchia sinistra comunista.

In realtà, si sta parlando di qualcosa di piuttosto marginale rispetto al complesso dei problemi che attanagliano il mondo del lavoro oggi.
Si tratta di qualcosa di  marginale perché l’attuale versione dell’art. 18, quella vigente dopo la riforma del governo Monti del 2012, limita il reintegro (tralasciando il caso dei licenziamenti discriminatori, che nessuno dirà mai non essere degni del reintegro) ai casi in cui il fatto contestato al lavoratore licenziato per giusta causa o giustificato motivo soggettivo non sia mai stato commesso (ossia il caso in cui il datore abbia contestato il falso), oppure rientri tra i fatti puniti con una sanzione disciplinare più lieve del licenziamento.

In tutti gli altri casi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo (si pensi ai casi in cui il datore non abbia rispettato la procedura prevista per il licenziamento commettendo magari errori formali), il lavoratore avrà diritto solo ad un indennizzo economico.

Quando, invece, il pretesto economico od organizzativo utilizzato per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia ritenuto “manifestamente insussistente”, ossia un pretesto fasullo, viene lasciato al giudice il potere di disporre, caso per caso, il reintegro o meno. In tutti gli altri casi in cui sia discutibile la sussistenza o meno del presupposto economico, il lavoratore avrà diritto solo ad un indennizzo.

L’attuale versione si potrebbe per certo rivedere ancora, eliminando, ad esempio, la possibilità di disporre il reintegro in caso di esistenza di una sanzione più lieve del licenziamento, a fronte, magari, di un maggior indennizzo. Ma il problema non è davvero questo.

Non è il pericolo di reintegra di per sé che spaventa gli investitori.

Il problema per l’investitore è ancora una volta l’incertezza, l’incertezza, al momento del licenziamento, sulle conseguenze che potrebbero scaturirne.
Fra quanto tempo dovrò magari reintegrare il lavoratore? Nel frattempo devo tenere scoperta quella posizione lavorativa? Se assumo qualcun altro, magari più adeguato, per coprire la stessa posizione, dovrò un domani licenziare anche lui e sostituirlo con il lavoratore nel frattempo reintegrato? Quando saprò come va a finire? Quanto dovrò davvero pagare di risarcimento? E Quando? Quanto devo accantonare nel frattempo per coprirmi dal rischio?

Queste sono alcune delle domande che sorgono.

Sì, perché la normativa attuale comporta che in caso di condanna alla reintegrazione da parte del giudice, il datore sia condannato anche a risarcire un indennizzo pari all’ultima retribuzione, comprensiva di oneri previdenziali, per ogni mese dal licenziamento fino al reintegro effettivo.

In tal modo il datore è chiamato a scontare l’incerta durata del processo ed il suo incerto esito, trovandosi, magari, a dover accettare una reintegrazione dopo molti anni.

Il fatto che il lavoratore, che nel frattempo abbia trovato un altro impiego, possa poi chiedere, in alternativa al reintegro, un ulteriore risarcimento, conta poco, perché il datore conoscerà tale scelta solo alla fine del processo.

La guerra al reintegro, quindi, è una guerra all’incertezza e non una guerra al lavoratore. Questa cosa qua va precisata a gran voce. Invero, la certezza delle situazioni giuridiche e dei costi connessi, o almeno una certa prevedibilità di questi, sono condizioni imprescindibili di ogni attività economica.

In questo contesto, quella parte di sinistra che sta a sinistra di Renzi pare dimenticare che la condizione minimale per tutelare un posto di lavoro è che il lavoro effettivamente ci sia.

Per questa parte di sinistra l’imprenditore è di regola una persona dall’abuso facile. E’ un capitalista, detto naturalmente in termini spregiativi, perché il capitale rimane quella “proprietà che sfrutta il lavoro salariato” secondo la definizione che Marx ed Engels ne diedero nel Manifesto del Partito Comunista del 1848. Come tali, capitale e capitalisti vanno contenuti e per nulla agevolati.

Per questa parte di sinistra, i lavoratori sono ancora coloro che “vivono solo fin quando trovano lavoro e trovano lavoro solo in quanto il loro lavoro accresce il capitale (…), sono solo una merce come qualsiasi altro articolo in commercio” (così ancora il Manifesto) e come tali vanno tutelati.

Questa parte di sinistra, in sostanza, fa fatica ad ammettere che “anche il capitalista è un lavoratore”, come precisò all’assembla costituente il senatore Roberto Lucifero, in replica alla proposta di Palmiro Togliatti di qualificare l’Italia una “Repubblica di lavoratori”.

Per questa parte di sinistra, il lavoro, di per sé, può passare in secondo piano rispetto alla tutela del lavoratore, perché, per questa parte di sinistra, assicurare il posto di lavoro a tutti i costi, anche quando il lavoro diminuisce o scompare, ha una forte valenza assistenziale.
Il lavoro, così, diventa non più il fondamento responsabile della nostra Repubblica, ma un sussidio, una tassa giusta contro l’iniquità del datore capitalista.

Pertanto, quando Susanna Camusso afferma che il reintegro costituisce un efficace deterrente contro il licenziamento, dimostra tutta la scarsa considerazione in cui tiene il datore di lavoro e conferma quanto abbiamo detto sopra sulla prevalenza del lavoratore sul lavoro e sulla funzione assistenziale del rapporto d’impiego.
Infatti, se il lavoro c’è, non possiamo trattare il datore come se avesse per definizione il licenziamento facile. Quindi, se il lavoro c’è, non c’è necessità di deterrenza.
Vivecersa, se il lavoro non c’è, non c’è motivo di imbrigliare il datore dissuadendolo dal licenziamento.

Facile, su queste basi, arrivare a pensare che in qualche misura il lavoratore conti per il sindacato anche perché tesserato e per i prelievi sindacali che poi si potranno operare in busta paga.

Dall’altra parte, rispetto a questa sinistra, vi è chi cerca a fatica di spiegare che, anche ammettendo che nel 1848 una lotta di classe di quella portata potesse aver un qualche nobile significato, troppe cose oggi sono cambiate e la tutela del lavoratore passa necessariamente dalla agevolazione dell’imprenditore.

Per porre rimedio alle incertezze che spaventano il datore di lavoro che intenda investire in Italia, bisogna anzitutto limitare il potere del giudice di stabilire quali saranno le conseguenze del licenziamento ritenuto illegittimo, perché si tratta di un potere che non può che essere incerto quanto a tempi ed esito.

Finché non si riesca a contenere il processo entro tempi ragionevoli, o si creano delle camere del lavoro con funzioni decisorie, in grado di chiudere un contenzioso in qualche mese, oppure si deve rendere il datore comunque compartecipe delle decisioni che riguarderanno il futuro del rapporto di lavoro.

L’Italia è, insieme all’Austria e al Portogallo, l’unico Paese Ocse ad assegnare al solo lavoratore  la possibilità di optare per una indennità sostitutiva al licenziamento (nel nostro Paese essa è pari a 15 mensilità). Vi sono nazioni, come la Germania, in cui tale possibilità è rimessa anche al datore di lavoro. Altre, come la Francia, nelle quali il reintegro ordinato dal giudice può essere rifiutato da una delle due parti unilateralmente.

Insomma, solo una maggiore certezza all’inizio, in fase di interruzione del rapporto, o una compartecipazione alle decisioni alla fine, quando il processo arriva a sentenza, potranno davvero agevolare l’impresa e quindi un certo dinamismo diffuso dei flussi in ingresso.

 

 



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