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Articolo 18, ecco come Renzi lo rottama

Qui si rifà l’Italia o si va a elezioni. Con piglio garibaldino e mille giorni richiesti per lo sbarco delle sue riforme, chissà se Matteo Renzi ha finalmente capito, intervenendo ieri l’altro in Parlamento, che non può continuare a tenere sulla corda a colpi di annunci un Paese che è già alle corde. Recessione, deflazione, disoccupazione crescente e previsioni calanti o stagnanti nella produzione industriale: sarebbe un delitto, se il governo e il suo presidente del Consiglio tuttofare non cogliessero -ancora!- il problema principale e prioritario. L’unico che interessi gli italiani, indistintamente. E poi se la memoria collettiva zoppicasse, gli organismi internazionali e la petulante Europa ce lo rinfrescano dalla mattina alla sera, il nostro obbligo. Dobbiamo crescere. E per crescere, occorre un nuovo e vigoroso piano-lavoro, che il nostro garibaldino ha battezzato col machiavellico jobs act. Dell’astuto disegno farebbe parte il cosiddetto contratto a tutele crescenti, con l’obiettivo sia di mettere un po’ d’ordine nel caos della quarantina di contratti vigenti, sia di rendere più flessibile il precario e paralizzato mercato del lavoro. Il governo ha presentato uno specifico emendamento al testo nel Senato per agevolare l’ingresso dei neo-assunti al lavoro e incoraggiare le imprese a prenderli, poiché le garanzie del mantenimento del posto crescerebbero, appunto, col passare del tempo e dell’esperienza maturata. Più indennizzi, anziché reintegri. Meno rigidità per tutti, maggiori investimenti per tutti.

Eppure, anche se la formulazione dell’articolo dovrà passare per le forche caudine del dibattito e del voto parlamentari e i suoi effetti si misureranno con gradualità nel giro di tre anni, e riguarderà i soli assunti di domani, i sindacati già gridano allo scandalo. Qui si abbatte il tabù -essi temono-, il famoso articolo 18 sul licenziamento illegittimo, giunto a noi dallo Statuto dei lavoratori di quarantaquattro anni fa. Tema sul quale Renzi ha ipotizzato anche il ricorso al decreto-legge per dare ai cittadini (e all’Europa) quel segnale di cambiamento che a sua volta darebbe credibilità almeno a una delle troppe riforme finora soltanto annunciate.
Sul lavoro, dunque, il presidente del Consiglio si gioca il credito europeo non smisurato, ma effettivo di cui gode, e la popolarità fra i pazienti, ma impazienti italiani. A seconda di quanto e di quando la novità diventerà operativa, Renzi perderà una fetta di consensi. Ma potrà guadagnare ciò che gli manca, cioè la percezione degli altri che l’uomo sia anche capace di mantenere le promesse, e non soltanto di saperle fare meglio di chiunque (se la gioca solo col Silvio Berlusconi di una volta, quello del “meno tasse per tutti”).

Naturalmente, in un Paese affamato di lavoro non bastano le tutele crescenti, né i decreti-legge per scuotere l’economia. Neppure i moniti del Quirinale sull’indecoroso protrarsi delle votazioni per eleggere i membri del Csm e della Corte Costituzionale, o l’ennesimo faccia a faccia Renzi-Berlusconi: ben altro impone la svolta necessaria.

Ma dal modo in cui il governo afferrerà il toro della crisi per le corna, comprenderemo presto se vale la pena attendere altri mille giorni per cambiare. O se cambiare l’illusionista di tante speranze.

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