Pierluigi Bersani non può essere equivocato. Ha bloccato il progetto di Renzi di rinnovare in maniera concretamente unitaria la direzione del Pd, adducendo che di ciò non si è discusso nel partito e precisando che la scelta dei parlamentari per la XVII legislatura l’ha fatta lui, e non il premier, sicché, anche per le riforme, è la vecchia guardia postcomunista che deve avere l’ultima parola, e non le anime belle e giovani di cui si circonda l’ex sindaco di Firenze.
È implicito, da questo ragionamento bersaniano, un avvertimento a Renzi, cui sembra dire: bada Matteo che il voto europeo ha mistificato la rappresentatività del Pd; tu non sei stato eletto nel parlamento nazionale e neppure in quello europeo; i tuoi patti col nemico storico Berlusconi non valgono un soldo bucato; e, d’ora in avanti, sarà inevitabile ripristinare una vera democrazia di partito, se non vogliamo davvero mandare alle ortiche la gloriosa storia che noi rappresentiamo: specie se proveniamo dalla solida «via emiliana al potere».
Rivendicando a se stesso la titolarità del pacchetto di maggioranza dei parlamentari del Pd, Bersani ha così reclamato la responsabilità anche di tutte le votazioni dissenzienti manifestate nel corso della XVII legislatura: dalle elezioni presidenziali del 2013 alle votazioni della settimana scorsa per l’elezione dei componenti laici del Csm e per i seggi vacanti della Consulta. Ma ha anche senza tanti ghirigori avvertito che, per le riforme in cantiere, è lui, e non Renzi, l’uomo che ha in mano le carte del gioco e, sotto sotto, le stesse sorti della legislatura. E, di tutto ciò, Renzi non può pensare si tratti di semplici bluff.
Anche perché sono imminenti le elezioni regionali in una Emilia dove il Pd non può permettersi il lusso di perdere e trasferire il potere ad altre maggioranze politiche. Insomma, gli intrecci sono tanti. Gli appuntamenti parlamentari molteplici. Le scadenze politiche parecchie e non marginali. E – questo il ragionamento di Bersani – Renzi è diventato il segretario del Pd, ma il padrone della sinistra (e delle sue relazioni esterne con sindacati, cooperative e fonti di finanziamento) resta pur sempre lui, l’emiliano bonario, e non il giovine fiorentino, simpaticone ma privo di briglie reali.
Motivo di più perché il centrodestra possa dichiararsi finché vuole alternativo alla sinistra, ma la sostanza è che il Pd se ne può far beffe. Perché, coi bersaniani che non hanno nemici a sinistra, i fuochi artificiali di Renzi possono piacere a Berlusconi, ma sono pur sempre fatui e inincidenti nella realtà politica nazionale. E qui, in effetti, si parrà anche la nobilitade (cioè la valorosità) del centrodestra. Al cui interno i disaggregatori e gli scontenti non hanno smesso di baccagliare e di stordire l’elettorato moderato con le loro pretese piccole piccole.