Con l’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’articolo di Tino Oldani, apparso sul quotidiano Italia Oggi.
Il direttore Pierluigi Magnaschi, nei giorni scorsi, ha già spiegato con l’abituale chiarezza che è Angela Merkel a decidere e a fare in prima persona la politica estera europea. Senza il suo benestare, da tempo non si decide nulla a Bruxelles. Rimane dunque un mistero quale possa essere il potere effettivo della nuova Lady Pesc, Federica Mogherini, al di là di un ovvio ringiovanimento dei partecipanti alle foto di rito dei soliti vertici.
Ma ormai i giochi sono fatti: il premier Matteo Renzi ha voluto a tutti i costi una nomina che considera di prestigio, e la giudica una sua vittoria su “gufi e rosiconi”. Così facendo, però, ha regalato a un altro Paese Ue la possibilità di guidare uno dei vari dicasteri economici, postazione che sarebbe stata più utile all’Italia per ridiscutere il Fiscal Compact e uscire dalla recessione. Non solo. Puntando sulla politica estera Ue, Renzi ha di fatto svilito il lavoro che il predecessore italiano della Mogherini nella Commissione Ue, Antonio Tajani, aveva fatto a favore dell’industria nazionale. Una mancanza di continuità che rischia di penalizzare il nostro settore manifatturiero.
Quest’ultima ipotesi emerge con forza da un saggio recente di Filippo Astone (“La riscossa”; Magenes), che indaga sul crollo recente della nostra industria manifatturiera, e indica le possibili terapie di ripresa. Tra queste, uno spazio notevole è destinato proprio alle iniziative che Tajani ha adottato come commissario Ue all’Industria negli ultimi cinque anni. Astone, che non nasconde una personale simpatia politica per i radicali (all’inizio di ogni capitolo ha inserito una citazione di Ernesto Rossi), traccia a sorpresa un bilancio positivo dell’operato di Tajani, che pure ha una storia politica assai diversa dalla sua, quasi opposta (Tajani è stato monarchico da giovane, poi giornalista e cofondatore di Forza Italia, eurodeputato dal 1994, oggi vicepresidente del Ppe). Ma, in concreto, cosa ha fatto Tajani a Bruxelles?
Il suo merito maggiore, spiega Astone, è di avere varato nel 2012 un Piano europeo per rilanciare l’industria manifatturiera, con l’intento dichiarato di spostare il baricentro della politica europea dalla finanza all’economia reale, di cui l’industria è l’asse portante. Un Piano chiamato “Orizzonte 2020”, che si pone l’obiettivo di riportare il manifatturiero dal 15 al 20 per cento del pil Ue entro il 2020, facendo compiere al settore una inversione a U dopo la forte crisi che l’ha colpito a seguito della crisi finanziaria iniziata nel 2008. In sostanza, l’idea di un «Industrial Compact», in alternativa al famigerato «Fiscal Compact». Una scelta politica a suo modo rivoluzionaria, che paradossalmente è stata compiuta dal commissario Ue che ha rappresentato l’Italia per cinque anni e che i giornaloni di casa nostra hanno ignorato.
A sostegno del suo Piano, fatto proprio dalla Commissione Barroso, Tajani ha indicato numeri e fatti precisi: «La crisi, causata da una finanza senza regole, con l’eccesso di austerità ha penalizzato investimenti e domanda interna, indebolendo la nostra base industriale. Quattro milioni di posti di lavoro e 350 miliardi d’investimenti persi in Italia, un livello di disoccupazione giovanile drammatico, il record storico negativo di appena il 15% di pil legato al manifatturiero, la cui produzione è tuttora inferiore del 10% rispetto al 2007 e cinque punti sotto rispetto agli anni Novanta». Da qui l’urgenza di intervenire, con una nuova visione produttiva e adeguati mezzi finanziari.
Quanto ai settori d’intervento, il Piano Tajani-Ue punta non più su «vecchie ciminiere inquinanti, ma su una produzione moderna, di qualità, che concentri le risorse su: manifatturiero avanzato e stampante 3D, bio-economia, nuovi materiali e tecnologie abilitanti fondamentali, reti intelligenti, costruzioni sostenibili, efficienza delle risorse, veicoli verdi e spazio. A quali si devono aggiungere agroalimentare, tessile, trasporti e costruzioni».
Soltanto belle parole? Una volta tanto, pare di no. «Per la prima volta in Europa non è solo l’agricoltura ad avere un bilancio: quasi un sesto delle risorse Ue da qui al 2020 è destinato ad investimenti industriali e accesso al credito» ha precisato Tajani. Le somme in gioco? «Oltre cento miliardi di euro dai fondi regionali, 40 miliardi da Orizzonte 2020, altri 2,3 miliardi da Cosme (programma Eu per la competitività). A cui si aggiunge l’aumento di capitale di 10 miliardi della nuova Bei (Banca europea per gli investimenti) e del Fondo europeo d’investimenti». Non è tutto. «Con i cofinanziamenti nazionali, i prestiti della Bei e le risorse private» sostiene Tajani nel suo Piano «possiamo mobilitare fino a mille miliardi, aprendo nuove opportunità per Governi, Regioni e imprese».
Dettaglio importante: questo Piano è stato lanciato dall’Ue nell’ottobre 2012, quasi due anni fa. Da allora buona parte dei Paesi Ue hanno presentato, attraverso i loro governi, dei piani dettagliati, necessari per poter fruire dei finanziamenti. Quasi nulla di tutto ciò è stato fatto in Italia, che ha continuato a «sperperare e perdere i fondi Ue per inefficienze, clientelismi, finanziamenti a pioggia per sagre di paese e corsi di formazione fantasma». Il governo Renzi, se davvero vuole distinguersi da quelli precedenti e promuovere la ripresa con i fatti invece che con gli annunci, non dovrebbe perdere un minuto per iscrivere l’Industrial Compact tra le priorità dei prossimi mille giorni, aprire al più presto un tavolo con la Confindustria e le categorie interessate per definire finalmente dei progetti d’investimento decenti, nei settori indicati da Orizzonte 2020, e chiedere al nuovo commissario Ue per l’Industria (che non sarà più italiano, purtroppo) il relativo finanziamento. E, magari, dire grazie a Tajani.