La tredicesima fumata nera di Montecitorio non è un episodio di normale follia parlamentare. Piuttosto è il segno del progressivo degrado assemblearistico prodotto da una politica ridotta a poltronificio cui da tempo si sono abbandonati partiti grandi, medi e marginali: abusando dello scrutinio segreto.
Intendiamoci. Lo scrutinio segreto non va abolito, né ora, né nel futuro ordinamento costituzionale e nei regolamenti parlamentari che sortiranno fuori dalla sospirata riforma costituzionale. Su questioni inerenti a giudicare e valutare persone, è giusto che si ricorra allo scrutinio segreto, e non a quello palese o elettronico. Ricordo sempre la lezione di don Luigi Sturzo, con la sua battaglia senatoriale per l’abolizione delle votazioni segrete, sempre esposte al più fetido agguato; ma anche la sua eccezione irrinunciabile per i casi riguardanti persone fisiche. Sulle quali va sempre riconosciuto il diritto ad esercitare l’obiezione di coscienza. Esattamente per lo stesso motivo, e osservando la medesima logica, rammento l’arbitrio commesso lo scorso anno dal senato che, contravvenendo a regole e regolamenti, impose il voto palese per la defenestrazione di Silvio Berlusconi da Palazzo Madama.
L’ennesima fumata nera dell’assemblea parlamentare – che continua a tenere bloccate le istituzioni massime dello Stato, la Consulta e il Csm – non nasce tuttavia da un palese rifiuto di candidature di livello mediocre e volto a sollecitare e mutare coppie di cavalli in corsa. Lo stesso presidente della Repubblica, giustamente molto preoccupato e angustiato per lo stallo che continua a impedire il funzionamento di due istituzioni fondamentali dell’ordinamento costituzionale, se ne deve fare una ragione. I voti mancanti ai candidati concordati non esprimono un orientamento negativo assoluto sulle persone (fra l’altro, tecnicamente possibile esclusivamente a ragione dell’altissimo quorum dei 3/5). Quei voti ballerini indicano teoricamente una rivolta delle unità marginali (individuali o di gruppo) contro lo strapotere delle oligarchie che hanno proposto le candidature; ma, politicamente, celano una ribellione aperta contro un governo che vuole cambiare verso all’Italia e prospetta soluzioni (e alleanze fra diversi) sgradite a parti consistenti degli eletti su altri presupposti, rimasti disattesi. A cominciare dalla necessità di una riconciliazione nazionale con il contemporaneo ridimensionamento delle vecchie corporazioni che condizionano, dall’esterno, la stessa vita parlamentare.
Le fumate nere di Montecitorio rendono evidente l’esistenza di un partito trasversale giustizialista che non vuole – per nessun motivo – una riforma della giustizia e una riforma del lavoro di segno moderno e più democratico. Lo zoccolo duro di tale partito trasversale è stanziato nel Pd, il partito del premier. Ma traspare anche in formazioni minoritarie che non credono nello Stato unitario oppure sono ferme ad una lettura vetero-operaista della realtà sociale nazionale in una fase di gravissima recessione economica (e politica). Un orgoglio di casta e d’ideologia sta insomma opponendosi anche al più blando dei riformismi. Lasciando padrone effettivo del parlamento il settarismo grillino.