Ieri ero alla giostra. Di quelle, come si dice, di una volta anche perché le giostre non le fanno più. Aveva i cavalli, la carrozza della principessa e alcune navicelle ispirate ai cartoon della tivù anni 80 con i robot giapponesi. Il titolare della giostra nella sua postazione, quella da cui metteva i dischi come un disk jockey e da cui, al microfono, cercava di conquistarsi un sorriso dai suoi piccoli clienti, aveva l’età di chi aveva iniziato a lavorare con la giostra negli stessi anni di quei cartoon. Smunto, con un sorriso melanconico, aveva visto ossidarsi le cartilagini così come le navicelle della giostra arrugginirsi qua e là. Quando, dopo aver ritirato i biglietti da tutti i passeggeri, tornava nella sua postazione con tanto di sedia dallo schienale altissimo, con il mixer, cavi, microfono, e con tutti i bottoni davanti per mettere la musica e per mettere in moto la giostra potendone cambiare i colori e i suoni ad ogni corsa, sembrava un vero e proprio regista. E quella postazione, sebbene dimessa, sebbene avvolta da una così poetica melanconia, pareva proprio la stanza dei bottoni. Deve essere stato per quello che ho pensato all’intervista di Paolo Pillitteri sul Fatto Quotidiano di qualche giorno fa dove l’ex-sindaco di Milano a proposito della grande forza di Renzi dice: – Far credere che oltre non ci sia assolutamente niente. Invece c’è sempre un dopo. Questo gioco lo usavamo anche noi – .
Una giostra da bere
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