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Tutti gli effetti nefasti della deflazione

Qual è il grande segreto della maggior parte, se non di tutte, le Grandi depressioni? Più i debitori pagano, e più saranno debitori. Più la barca dell’economia s’inclina, più continuerà a inclinarsi. Non tenderà a rimettersi in posizione, ma a capovolgersi“. Così Irving Fisher, uno dei più importanti economisti statunitensi del XX secolo, scomparso nel 1947, sintetizzava il funzionamento potenzialmente micidiale del binomio “debito-deflazione”. E’ anche alle luce delle sue intuizioni che si possono spiegare le scelte sorprendenti a sostegno dell’economia, compiute questa settimana del presidente della Banca centrale europea (Bce), Mario Draghi.

Irving Fisher è stato uno tra i primi economisti a capire con quanta forza la moneta possa incidere sull’economia reale, e a suggerire quindi una maggiore attenzione per la gestione (pubblica) delle riserve valutarie. Figlio di un pastore evangelico, si laureò a Yale. Presto però rischiò di vedere per sempre compromessa la sua autorevolezza: alla metà dell’ottobre del 1929, infatti, durante una conferenza pubblica, Fisher disse che i prezzi delle azioni sembravano aver raggiunto “un livello stabilmente alto”. Pochi giorni dopo, però, il 29 ottobre del 1929, ci fu il più grave crack di Wall Street, il cosiddetto “martedì nero” che segnò l’inizio della Grande Depressione. Fisher, fino ad allora troppo ottimista, ebbe comunque la capacità di rivedere alcune sue convinzioni e di elaborare riflessioni utili ancora oggi. Incluse quelle su deflazione e debito.

La deflazione è il contrario dell’inflazione. Mentre l’inflazione consiste in un aumento generalizzato dei prezzi, la deflazione indica invece un calo dello stesso andamento dei prezzi in terreno negativo. Se aspettative di prezzi futuri più bassi si diffondono, il problema per l’economia non sarà dovuto soltanto al fatto che consumatori e investitori potrebbero rinviare le proprie spese in attesa di prezzi più convenienti. Così il circolo vizioso prezzi bassi- minori consumi rischia di autoalimentarsi.

Fisher piuttosto approfondì i meccanismi attraverso i quali la deflazione, in una situazione di indebitamento elevato, ridistribuisce la ricchezza tra debitori e creditori. Diciamo subito che i debitori, siano essi privati cittadini o Stati sovrani, hanno generalmente da perderci in fasi di prezzi al ribasso. Facciamo l’esempio di un cittadino A che prende a prestito 100 euro da un cittadino B per comprare 100 unità di un certo prodotto che costa 1 euro ad unità: si potrebbe dire che B stia virtualmente prestando ad A 100 unità di quel prodotto, ricordava Fisher. Supponiamo che, alla fine di un certo anno, dopo un calo dei prezzi, con 97€ si possano comprare le stesse unità di prodotto che si potevano comprare a inizio anno con 100€. In questo caso il creditore, vedendosi restituire 100€, ottiene quindi un potere d’acquisto maggiore di quello prestato all’inizio. A danno del debitore.

La deflazione inoltre aggrava le condizioni dell’economia – ragionava Fisher – perché i debitori tendono a spendere di più e a risparmiare di meno rispetto ai creditori, come dimostra il fatto che hanno chiesto un prestito. Quindi le loro spese, una volta perso potere d’acquisto, diminuiscono più di quanto non aumentino quelle dei creditori. Portando a un ulteriore calo dei prezzi, cioè a un aggravarsi della deflazione, a un appesantimento del debito da ripagare e via dicendo. Ecco cosa voleva dire Fisher quando scriveva che “ogni dollaro di debito non ancora ripagato è come se diventasse un dollaro più pesante. Dunque, quando l’eccessivo indebitamento era già abbastanza elevato all’inizio, la corsa a liquidare i debiti non può tenere il passo della caduta dei prezzi che quella stessa corsa genera”.

In una fase di deflazione l’azione apparentemente razionale di tanti singoli individui che vogliono liberarsi dei loro debiti può diventare dannosa per la società. In fondo lo stesso meccanismo è in azione per gli Stati sovrani europei più indebitati. Si prenda il caso dell’Italia, dove il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo ha superato il 135%. In caso di stagnazione e contemporanea deflazione o disinflazione, come oggi, cosa succede? Da una parte il pil nominale del paese – cioè il pil reale calcolato tenendo conto dell’andamento dei prezzi – si riduce, perché i prezzi scendono e perché la ripresa non c’è; dall’altra lo stock di debito pubblico rimane lo stesso: di conseguenza, il rapporto debito pubblico/pil aumenta, e comunque diventa più difficile da ridurre. Viceversa, anche un livello fisiologico d’inflazione, per esempio il 2 per cento annuo previsto dallo Statuto della Bce, accrescendo il pil nominale aiuterebbe un paese come il nostro nella riduzione del debito pubblico.

L’Eurozona però oggi va nella direzione opposta. Il livello dei prezzi di agosto quest’anno è sceso a 0,3 per cento, in calo dallo 0,4 per cento di luglio e in generale da inizio anno. In Italia ad agosto, per la prima volta dal 1959, abbiamo registrato addirittura una flessione dello 0,1 per cento dell’indicatore dei prezzi al consumo rispetto all’anno precedente, anche se la variazione dei prezzi è lievemente positiva se non si tiene conto dei prezzi energetici. Allo stesso tempo, con la ripresa che tarda a manifestarsi, il nostro paese – come molti altri dell’Eurozona – continua ad accumulare debito pubblico. “Le due malattie – come scriveva Fisher di eccessivo indebitamento e deflazione – reagiscono l’una con l’altra”. E’ anche per tentare di impedire questa reazione a catena, scoperta per la prima volta dall’economista americano, che giovedì scorso Draghi, il presidente della Banca centrale europea, ha spiazzato ancora una volta mercati e analisti annunciando un ulteriore taglio del costo del denaro e poi l’acquisto di strumenti finanziari emessi dal settore privato (Abs, o titoli cartolarizzati) per sostenere l’offerta di credito all’economia. Ma il tempo guadagnato dalla politica monetaria non è tutto.

Testo tratto dal blog di Marco Valerio Lo Prete sul sito del Foglio


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