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La bella lezione di Kissinger

I contenuti dell’articolo dell’illustre politologo e statista americano Henry Kissinger pubblicato sul Corriere della Sera del 2 settembre si pongono sul solco delle più modeste riflessioni del 26 agosto su questo stesso quotidiano, poi rimbalzate sui media nazionali; essi meritino d’essere portati a conoscenza del grande pubblico per due motivi: il primo, tutto nazionale, è che una società ha bisogno di persone dotate di saggezza ed esperienza di qualsiasi età se vuole progredire. Kissinger ha 91 anni e ancora viene consultato e riceve incarichi di prestigio in materia di relazioni internazionali. Spero che lo consulti anche la neoeletta Lady Pesc, Federica Mogherini, nella sua qualità di responsabile della politica estera e di difesa dell’UE.  Combattere i vecchi tromboni è un dovere della cultura, come della politica, e può essere ben fatto se si combattono anche i giovani tromboni, perché esistono anche questi. Il problema non è quello di sostituire indistintamente i vecchi con i giovani, gli uomini con le donne, ma di selezionare i migliori qualsiasi età e sesso abbiano; se la società non è capace di farlo, degrada. Se a questa incapacità che diviene programma di governo aggiungi una forte disoccupazione giovanile, con conseguente perdita delle migliori menti e dei tecnici più bravi, nel giro di una generazione l’Italia diverrà un altro paese mediterraneo arretrato.

Il secondo motivo riguarda i contenuti molto ampi dell’articolo che possono essere così sintetizzati. Kissinger afferma che è saltato l’ordine mondiale centrato sulla potenza economico-militare degli Stati Uniti e sulla sua capacità d’essere uno Stato liberaldemocratico, ossia (per intenderci) una società che offre le libertà insieme a opportunità di ascendere nell’ascensore sociale. Avevano avuto successo perché erano stati capaci di trasmettere questi valori al resto del mondo fino a sconfiggere quelli del comunismo in versione sovietica. Riconosce che l’Europa ha avuto un ruolo integrativo nel portare avanti i valori della socialdemocrazia (il welfare, per intenderci), ma invece di avere una cultura simile a quella degli abitanti del Nord America, che decisero di unire le loro sorti in una federazione di Stati, coltivano le diversità competitive nazionali e si sono spinti a fare ben due guerre mondiali e, oggi, impediscono la nascita di un’unione politica. Il resto del mondo, dice Kissinger, rifiuta questo ordine mondiale, ma non riesce a propiziarne uno nuovo. La Russia di Putin contesta l’ordine esistente, ma crea gravi tensioni e riduce quel poco di cooperazione che avveniva nel G8, dove venne accolta con grandi speranze. La stessa grande potenza emergente, la Cina, oscilla tra la cooperazione e il conflitto. Il mondo, dice sempre Kissinger confermando la mia valutazione espressa nel precedente articolo, ha una voglia matta di fare la guerra perché non ha una risposta ai problemi che l’assillano.

Kissinger ribadisce un punto più volte espresso nei miei scritti: la situazione contradditoria nasce dall’aver propiziato la globalizzazione economica – e, a mio avviso, soprattutto finanziaria – senza adeguate strutture geopolitiche di governo mondiale. Non può infatti convivere un mercato globale che detta legge agli Stati-nazione, compresi gli Stati Uniti, senza che essi sappiano come reagire o, peggio ancora, non vogliono. Il nuovo ordine mondiale è dettato dal grande capitale reale e finanziario e la politica obbedisce, per vocazione o per necessità. In un celebre scritto Keynes ci aveva illuso che il laizzez-faire fosse finito, mentre è finita la liberaldemocrazia. La conclusione di Kissinger è che gli Stati Uniti sono ancora al centro dell’ordine mondiale; tuttavia, sostiene che se  vogliono svolgere “un ruolo di responsabilità … devono prepararsi a rispondere a un certo numero di domande”, tra le quali “in che cosa consistono i valori che vogliono diffondere?” Questi valori erano chiari a tutti nel dopoguerra, oggi invece si è perso il senso della società in cui viviamo e cessato ogni impegno nel costruirne una coerente con il desiderio di pace e di benessere.

Concludo l’articolo con una massima che dovrebbero meditare tutti coloro che vorrebbero rinunciare alla sovranità nazionale senza prima ottenere l’unificazione politica europea: “La storia non offre scuse ai Paesi che rinuncino a difendere il loro senso di identità per ripiegare su un cammino meno faticoso.” O meglio, apparentemente meno faticoso.

(Questo editoriale è stato pubblicato ieri sull’Unione Sarda)

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