Dopo il vertice del Galles, è tempo di bilanci in casa Nato. Anche in Italia non mancano le occasioni (tra cui l’ evento che ieri ha riunito vertici militari del Joint air power competence centre e la rivista Airpress al Centro Studi Americani) di una riflessione sulle nuove sfide di un contesto geopolitico che facciamo fatica a decifrare, a volte usando iperboli futuribili (le “guerre non-lineari”) a volte ricorrendo a vecchie categorie (la “nuova Guerra Fredda”).
Al centro di tutto si colloca il potere aereo, la capacità di raccogliere informazioni, controllare il terreno e guidare una campagna dall’alto. L’Europa si ritrova tra Nord Africa in ebollizione, Vicino Oriente in guerra e Est Europeo in confusione: è dunque indispensabile per la tenuta dell’Occidente (ben oltre le previsioni di una sua marginalizzazione ai danni dell’Asia-Pacifico), ma quanto è pronta ad alzare la soglia di sicurezza?
Dottor Tosato, è vero, come sottolineano preoccupati i generali dello Japcc, che l’Occidente rischia di perdere la propria supremazia aerea per incuria?
Se lo vediamo in un’ottica complessiva, il potere aereo è sempre stato uno degli asset fondamentali alla base della superiorità delle coalizioni euro-americane. La contingenza economica soprattutto dal lato europeo sta però portando ad una riduzione delle piattaforme e delle capacità di investimento nel futuro. In prospettiva di 10 anni questo porta ad una frammentazione e riduzione complessiva di capacità. In pratica, il richiamo dello Japcc va visto non tanto come fotografia della situazione attuale, ma in una logica futura, ovvero guardando all’evoluzioene dei prossimi 10-20 anni quando le piattaforme legacy di cui disponiamo andranno ad esaurirsi. Inoltre, l’incremento di costi del mantenimento delle nuove piattaforme comporta di per sé una riduzione delle capacità. Se le già scarse risorse economiche non vengono investite in modo coerente e sulle capacità strategiche, si rischia dunque una perdita di potenziale operativo nel futuro.
L’Europa riuscirà a sviluppare un pilastro aerospaziale europeo?
Qui entra in gioco la necessità di investimenti condivisi, con consorzi industriali comuni. D’altronde, che ci sia un gap di capacità aeree fu evidenziato nel 2011 dalla campagna in Libia, dove senza il supporto degli Stati Uniti soprattutto per gli enablers (aerei cisterne, dispositivi ISR pilotati e non, trasporto strategico) gli alleati europei si trovarono in grande difficoltà.
Dal vertice del Galles le pare che sia emersa questa consapevolezza? Qual’è stato il messaggio forte del Summit?
Il principale messaggio è stato l’invito a riequilibrare il contributo di Usa ed Europa nella protezione dello spazio Nato in ambito europeo. L’auspicio americano è che gli alleati europei aumentino le spese della difesa, in modo che gli USA partecipino al massimo al 50% in termini di risorse economiche e di missione. Di qui l’impegno entro i prossimi 10 anni di portare le spese militari al 2% del Pil, con un 20% destinato a ricerca e sviluppo. Questa però è soprattutto una dichiarazione politica. Il dato vero è che intanto i Paesi che si trovano sotto questa soglia (come l’Italia) si impegnano a fermare ogni ulteriore riduzione. Che poi si arrivi davvero a quella soglia è davvero dubbio visto che a smentire ulteriori impegni di spesa è stato, appena dopo il vertice, il ministro della difesa del Paese più florido dell’Europa, cioè la Germania.
Che cosa pensa del modo in cui è stato trattato il tema “Russia”?
La Nato è un’alleanza militare che tuttavia, dal punto di vista politico, dipende dalla sintesi fatta dai vertici. Il Summit del Galles è stata una mediazione tra le posizioni fortemente preoccupate nei confronti della Russia dei Paesi Baltici e del Mar Nero, e quelle più concilianti verso Mosca dei partner euro-occidentali (Francia, Germania, Italia). Da questo punto di vista mentre c’è stata una forte condanna dal punto di vista politico del comportamento russo in Ucraina, dal lato materiale il rafforzamento sulla frontiera Est è più che altro simbolico. Si è annunciata la creazione di questa forza di allerta rapidissima di 3-4.000, ma a differenza di quanto auspicavano gli alleati europei orientali c’è rotazione e preposizionamento di materiale, ma non stanziamenti fissi. In pratica, la “riassicurazione” è tanto una risposta a Mosca quanto un richiamo agli alleati est-europei a moderare certi eccessi della retorica anti-russa e a disporsi ad un atteggiamento politicamente meno duro. Ciò che invece è mancato, al di là di qualche generico auspicio di riconciliazione nazionale, è l’impegno sulla Libia, dove la NATO non incide e che rischia di diventare un buco nero con grave danno per i nostri interessi nazionali.
Che tipo di minaccia pongono Cina e Russia al dominio aereo euro-americano?
Russia e Cina adottano una politica spaziale nazionale, ma anche i Paesi membri della Nato sono molto gelosi delle loro capacità nazionali. Ecco perché la Nato auspica un maggior ruolo quadro (framework) in ambito ISR, ma al momento le politiche satellitari sono decise dai singoli Stati, basti pensare a Francia, Germania (Sarlup) ed Italia (SkyMed). L’Alleanza guarda non tanto allo sviluppo di costellazioni satellitari di Mosca e Pechino, che pure sono in corso: il vero campanello d’allarme è lo sviluppo delle capacità antisatellite (A-SAT). Uno dei principi cardine della politica spaziale è la libertà di movimento, ma ciononostante e sotto mentite spoglie (con lanci sperimentali) vanno avanti le sperimentazioni di queste armi.
C’è oggi maggiore consapevolezza della necessità di condividere gli investimenti nella difesa aerospaziale?
Sì, la ristrettezza economica e l’urgenza di nuove minacce fa sì che ci sia un maggior convincimento della necessità di soluzioni di “smart defence”. I campi di applicazione sono chiari: un framework comune per controbattere alla minaccia cyber, il trasporto strategico e le capacità ISR, e la difesa anti-missile. E’ qui che deve entrare in campo come criterio guida la condivisione risorse, superando gelosie nazionali. Il sistema AGS (Allied Ground Surveillance) è un ottimo esempio. Nel 2017 entrerà in funzione da Sigonella. Si tratta di un buon traguardo perché permette di replicare l’iniziativa dell’AWACS che per vent’anni è stato il perno degli asset ISR del potere aereo Nato. L’AGS traccia la via di quello che dovrebbe essere l’air power in termini di alleanza: la perdita di capacità nazionali per motivi economici viene impedita in questo modo ricorrendo alla logica di coalizione.
Questa consapevolezza è più forte nelle opinioni pubbliche o nelle classi dirigenti?
L’impressione è che ci sia una propensione da parte delle forze armate europee alla condivisione maggiore rispetto a quella delle stesse classi politiche nazionali. Ma proprio perché lo strumento militare dipende dalle politiche, fin tanto che a livello europeo non si arriverà ad una spinta maggiore ad una politica estera e di difesa comune, è impossibile pensare che ci possano essere sviluppi seri. Anche in ambito Nato la spinta alla condivisione di determinati asset si ferma al livello di comunità di utilizzo di asset esistenti. L’opinione pubblica probabilmente viene di buon favore il fatto che le spese per la difesa vengano condivise in una logica europea.
Ma una volta che lo strumento venisse integrato chi prenderebbe la decisione di impiegarlo?
In questo caso le opinioni pubbliche sarebbero disposte a cedere sovranità effettiva, al di là della messa in comune di risorse in tempo di pace?