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L’articolo 18 tra Ernesto Rossi e Pietro Ichino

Nel 1954, l’economista Ernesto Rossi, che un anno dopo avrebbe partecipato alla fondazione del Partito radicale, scrisse una lettera a Piero Calamandrei, giurista e già membro dell’Assemblea Costituente. Una lettera che vale la pena recuperare alla vigilia della discussione parlamentare sulla riforma del mercato del lavoro.

Approvato infatti il “decreto Poletti” che è stato emanato dal Governo nel marzo scorso e che ha liberalizzato l’uso del contratto a termine, adesso la Commissione Lavoro del Senato dovrà trovare un’intesa sulla parte più rilevante del “Jobs Act” di Matteo Renzi. Il disegno di legge delega in discussione riguarda infatti ammortizzatori sociali, servizi per l’impiego e riforma del codice del lavoro: incluse le regole su assunzioni e licenziamenti.

Ma cosa c’entra la lettera di Ernesto Rossi con il Jobs Act di Renzi? La missiva prendeva spunto da un importante caso di cronaca del 1953: la fonderia Pignone di Firenze stava per fallire; ma dopo le rimostranze di sindacati ed enti locali si procedette a un salvataggio pubblico tramite l’Agip (l’attuale Eni). Calamandrei si era battuto contro i licenziamenti, dicendo che “la Costituzione garantisce a tutti il lavoro” e che “si tratta di scegliere fra il diritto degli azionisti ai dividendi e il diritto dei lavoratori a non morire di fame”.

Rossi replica che “un diritto degli azionisti ai dividendi non si è mai visto”. Dice pure che è mistificante parlare di “diritto dei lavoratori a non morire di fame” per una singola fabbrica salvata a spese del contribuente, mentre non si ragiona su un welfare universalistico. E poi aggiunge ironico: “Anche Calamandrei è un datore di lavoro, almeno nei confronti della donna di servizio. Se trova disumano e anticostituzionale il licenziamento degli operai che, per un mutamento nella domanda o nella tecnica, non riescono a guadagnarsi, negli stabilimenti in cui sono, il salario stabilito nei contratti, dovrebbe parimenti considerare disumano e incostituzionale il suo diritto di licenziare la donna di servizio. Ma dubito che Calamandrei sarebbe ancora disposto ad assumere al suo servizio una donna, se sapesse di non poterla più licenziare una volta che fosse entrata in casa sua“.

Si tratta, in nuce, di una risposta lungimirante a quanti per anni, in Italia, hanno sostenuto – soprattutto in epoca recente – che non fosse importante modificare le regole sui licenziamenti e superare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, cioè una norma del 1970 che obbliga le imprese con più di 15 dipendenti a reintegrare il lavoratore licenziato senza “giusta causa”. Dalla parabola della “governante di Calamandrei” s’intuisce infatti quanto la protezione legislativa e a tutti i costi della stabilità del posto di lavoro – anche a scapito della crescita, dell’uguaglianza di opportunità e della mobilità sociale – possa influire sulle sorti di imprenditori e lavoratori.

Si chiedeva Rossi nella lettera a Calamandrei: “Gli industriali vorranno prendere ancora iniziative rischiose, se non saranno sicuri di poterle abbandonare quando si accorgano di aver sbagliato?”. Se lo chiedono ancora oggi gli investitori – italiani e stranieri – che non possono stimare in anticipo il costo di eventuali ristrutturazioni aziendali: visto che un processo davanti al giudice del lavoro per ogni licenziamento individuale ha tempi e costi aleatori rispetto a quelli di un indennizzo monetario prestabilito.

Aggiungeva Rossi: “[Gli industriali] saranno disposti ancora ad assumere nuovo personale nei periodi di punta?”. Prefigurando così gli effetti, pure per i lavoratori, di una legislazione sui licenziamenti che è ancora oggi un unicum in Europa in quanto a rigidità. E che non può non aver concorso a generare – per reazione difensiva e quasi istintiva delle parti datoriali – un tasso di occupazione patologicamente basso nel paese.

Inoltre per il giuslavorista e senatore Pietro Ichino, l’Articolo 18 ha alimentato una concezione “proprietaria” del posto di lavoro. Così ogni dipendente è stato incentivato per decenni a legarsi al primo posto in cui otteneva un contratto a tempo indeterminato, rinunciando a cercare opportunità in aziende dove le sue capacità potessero essere più valorizzate. Un comportamento diffuso che nell’economia attuale ha peggiorato l’allocazione delle risorse, non ha sostenuto la produttività e ha reso più difficili le transizioni da un posto di lavoro all’altro, specialmente quando queste riguardano dipendenti più anziani.

Infine, dice Ichino, assistiamo a una vera e propria “fuga dal diritto del lavoro”. Nel tentativo di aggirare l’articolo 18, sin dagli anni 90 si è cominciato ad assumere figure formalmente autonome, ma che poi svolgono di fatto una prestazione di lavoro dipendente senza tutela dello Statuto, inclusi co.co.co, collaborazioni a progetto e finte partite Iva. Si aggrava in questo modo il dualismo, o apartheid come la chiama qualcuno, tra insider iper garantiti e outsider scarsamente tutelati su cui si scaricano tutte le esigenze di flessibilità.

Nel 2013, l’Articolo 18 si è applicato a poco più di 10 assunzioni su 100; oggi tutela 9,5 milioni di lavoratori, mentre 13 milioni di italiani rischiano tutto. Una norma che vale per un numero sempre minore di persone, ha alimentato però, e continua ad alimentare, scompensi in tutta la società. Ma finora il tandem tra ideologia del posto fisso e malinteso egualitarismo – simbolizzato da questa norma di 44 anni fa – ha impedito di affrontare davvero il tema. Come suggerirono di fare nel 1999 i Radicali quando promossero un referendum popolare per abolire l’articolo 18. 15 anni dopo, siamo ancora lì, e l’attesa non è costata così poco.

(tutte le puntate della rubrica Oikonomia sul blog Contrarian)



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