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Le riforme strutturali fuffa invocate dai soloni del rigore

Non passa giorno che non si senta parlare della necessità di riforme strutturali: sono leggi da approvare. Prima fra tutte, si invoca la flessibilità in uscita dal mercato del lavoro, poi c’è l’accelerazione della giustizia civile, il riordinamento dell’apparato pubblico, la semplificazione burocratica. La lista completa è nel Programma nazionale delle riforme, allegato al Def: è come ai tempi della programmazione economica, ogni epoca ha il suo Libro dei sogni.

Mentre si discute sul da farsi, si trascurano pericolosamente i mutamenti profondi che sono già avvenuti in questi ultimi tre anni, a partire dall’estate del 2011. Ci sono vere e proprie rivoluzioni strutturali che hanno reso irriconoscibili i comportamenti quotidiani delle famiglie, le loro scelte di lungo periodo ed ancor più le strategie delle imprese. Sono già avvenute e sono ormai difficilmente modificabili: la ripresa economica non c’è stata neppure nell’anno in corso e non potrà esserci neppure nel 2015 e nell’orizzonte a venire, perché ci si rifiuta categoricamente di riflettere sulle conseguenze profonde che sono state determinate dalle recenti decisioni di politica economica.

Cominciamo con le aspettative: tutti, indistintamente, temiamo che il peggio non sia affatto alle nostre spalle. Anzi, il fatto stesso di parlare ogni giorno della necessità di nuove riforme, al di là della patologica “annuncite” che affliggerebbe il Premier Matteo Renzi per sua stessa ironica ammissione, non fa che aggravare il clima di incertezza permanente in cui si vive da anni. Più si parla di estendere il bonus degli 80 euro mensili ai meno abbienti, più si diffonde il timore di altre tasse e di altri tagli alle spese necessari per finanziarla. Il fatto stesso di tenere continuamente aperto il cantiere legislativo, con una continua alluvione di decreti legge, induce tutti all’attesa: fino a tre anni fa, il ritmo era scandito dalla mannaia della legge finanziaria, varata a fine dicembre, e dalle correzioni di metà anno. Ora è tutto un guazzabuglio, tra manovre in anticipo ed aggiustamente rinviati rispetto al Def, il Documento di economia e finanza che viene presentato al Parlamento ad aprile e poi è aggiornato a metà settembre. Il quadro previsionale che lo accompagna si sta dimostrando sempre meno affidabile, soprattutto perché non incorpora le nuove relazioni economiche e finanziarie che caratterizzano la società italiana. Si guida guardando nel retrovisore.

Vediamo analiticamente quali sono stati i profondi mutamenti strutturali introiettati in questi ultimi tre anni. Cominciamo dal pareggio “strutturale” del bilancio pubblico, il primo di tutti gli errori: ci fu richiesto, addirittura in anticipo rispetto agli impegni di consolidamento previsti per tutti gli altri Paesi dell’Eurozona, con la famosa lettera a firma Trichet-Draghi nel luglio 2011, quando i mercati finanziari erano in subbuglio per la tenuta del nostro debito pubblico. Invece di minacciarli, come si fece solo l’anno dopo, con il famoso intervento londinese di Mario Draghi, quando pronunciò le fatidiche parole “whatever it takes”, si pretese l’impossibile dal nostro Paese, facendolo precipitare nella deflazione. Ed è assolutamente inutile puntualizzare, ricordando che in quella lettera si chiedevano tagli di spesa e riforme strutturali: l’intero testo dimostra la assoluta non comprensione dei meccanismi sottesi a decenni di gestione della nostra finanza pubblica italiana.

Eravamo riusciti a ridurre il rapporto debito/pil, ininterrottamente dal 1993 al 2007, attraverso una politica di bilancio fondata su manovre e correzioni “una tantum”: tanto vituperate, quanto idonee rispetto all’obiettivo da raggiungere. Come è noto, lo squilibrio dei nostri conti dipendeva ed ancora dipende dal debito pubblico anormalmente elevato: al netto degli interessi, il bilancio è in attivo, perché si pagano più tasse di quante risorse non tornino all’economia reale sotto forma di spesa pubblica. La politica di risanamento fondata sull’avanzo primario è quindi deflattiva per definizione. Ciononostante, tutti i governi succedutisi fino a quello presieduto da Mario Monti avevano ben chiara la necessità di non far gravare sulla collettività e sull’economia reale il costo della riduzione del debito: per questo motivo, anno dopo anno, si varavano i condoni. Tributari, previdenziali, edilizi, oppure sui capitali portati o costituiti all’estero, tenevano in equilibrio la baracca: a pagare, con forti sconti, erano comunque gli evasori o coloro che non erano in regola con le leggi. Il moralismo è sempre sbagliato, ma in politica è assolutamente deleterio: le manovre “una tantum” erano le uniche coerenti con una struttura del bilancio pubblico finanziariamente, ma non economicamente, squilibrata. Il risanamento strutturale del bilancio pubblico, invece, è stato ottenuto con un aumento generalizzato della pressione fiscale che ha ridotto drasticamente ed irrimediabilmente il reddito disponibile delle famiglie ed i margini delle imprese. Una politica sbagliata, che ha prodotto solo povertà e fallimenti.

Il primo errore fondamentale sta nella tassazione patrimoniale degli immobili, Imu e Tasi, che non attinge alla rendita monetaria effettivamente percepita dai proprietari ma al valore patrimoniale presunto: vengono pagate attingendo ad altri redditi effettivi, stipendi o pensioni che siano. Colpisce pure chi sta ancora pagandosi il mutuo: una idiozia mai vista. Ne è derivato un duplice impoverimento: così come dal punto di vista patrimoniale c’è stato un forte deprezzamento dei cespiti immobiliari, cumulandosi l’effetto della crisi economica generale con quello della nuova tassazione, sotto il profilo economico c’è stata una riduzione strutturale del reddito disponibile. Mentre negli Usa ed in Inghilterra si è intervenuti subito per sostenere il mercato immobiliare, con gli acquisti da parte della Fed delle Abs (Asset backed securities) con cui le agenzie federali cartolarizzano i mutui immobiliari e con la politica di “funding for lending” adottata dalla BoE, in Italia è stato fatto l’esatto contrario: è stato fatto grippare, forse deliberatamente, quello che era un motore della nostra economia.

C’è stata una ulteriore conseguenza strutturale: a valori costanti, fra il 2013 ed il 2006 gli investimenti in nuove costruzioni si sono pressochè dimezzati, passando da oltre 80 miliardi di euro a poco più di 40 miliardi. Sono rimaste pressochè immutate, invece, le spese per manutenzioni ordinarie, che valgono all’incirca 100 miliardi di euro l’anno. E’ quindi chiara la profonda ed ormai strutturale riallocazione del risparmio delle famiglie italiane, sia di quello già accumulato sia di quello di nuova formazione: il settore immobiliare, a dire il vero ipertrofico anche in relazione alla stasi demografica, è stato abbandonato per nuovi impieghi.

La debancarizzazione è così la seconda grande riforma socio-economica in corso, con ricadute pesanti per l’economia reale. La politica dei tassi di interesse particolarmente esigui si è trasformata in una trappola per la liquidità: se la raccolta bancaria complessivamente è cresciuta, visto che quella di pertinenza della clientela nazionale è passata dai 1.513 miliardi di euro di fine 2007 ai 1.718 miliardi di fine 2013, sono invece diminuiti i depositi a medio e lungo termine, passando da 584 miliardi di euro del giugno 2012 a 485 miliardi del giugno scorso, con una contrazione di ben 44 miliardi. Se la minor qualità della raccolta si ribalta sulla potenzialità di erogare prestiti bancari a medio e lungo termine, il dato più significativo è rappresentato dal crollo del credito al settore privato dell’economia, famiglie e imprese non finanziarie: dai 1.682 miliardi di euro del giugno 2012 siamo atterrati ai 1.574 miliardi di giugno scorso. In due anni, gli impieghi si sono ridotti di ben 108 miliardi di euro, pari a circa sette punti percentuali di pil.

Non è solo una questione di credit crunch: è il denaro che non passa più attraverso le banche. E’ significativo analizzare, infatti, l’andamento nettamente positivo della raccolta del risparmio da parte dei Fondi: alla fine di giugno scorso, il patrimonio netto gestito è arrivato a sfiorare i 1.480 miliardi di euro, dato che va comparato con i 1.718 miliardi di raccolta bancaria complessiva da clientela residente e con i 485 miliardi di obbligazioni bancarie. Nel solo primo semestre del 2014, la raccolta netta dei fondi è stata pari a 75,7 miliardi di euro. Risulta chiara la tendenza degli italiani a cercare per il proprio risparmio una allocazione diversa rispetto all’impiego immobiliare o bancario. Il punto cruciale, per l’economia reale, è questo: se le aziende italiane non sono le pricipali destinatarie degli impieghi da parte dei Fondi, il risparmio iltaliano alimenta altri sistemi economici. Ben poco, occorre riconoscerlo con franchezza, possono fare le emissioni dei mini bond e meno ancora serviranno gli acquisti di ABS da parte della Bce: le banche utilizzeranno la liquidità ricevuta per fare del trading sui mercati.

Il punto oggi è che l’economia italiana ha una ampia sovraccapacità produttiva rispetto alla domanda, che viene smaltita con il progressivo fallimento delle imprese meno efficienti. Il risanamento del bilancio attraverso l’aumento strutturale del prelievo fiscale è stato una mannaia: l’aumento di due punti dell’aliquota ordinaria dell’Iva e le accise sui carburanti hanno incrementato i costi di produzione che non sono stati scaricati sui prezzi per via della contemporanea riduzione del reddito disponibile delle famiglie. La fuoriuscita dal mercato delle attività produttive marginali provoca un collasso economico progressivo, che è a sua volta accelerato dalle continue correzioni fiscali.

La situazione è molto più seria e grave di quanto non si voglia far credere, non solo in Italia: parlare di riforme da approvare, ormai, è solo un diversivo. In termini marxisti, è sovrastruttura: #tuttafuffa.

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