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Luxottica, perché Del Vecchio ora non deve imitare Caprotti di Esselunga

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il cameo di Riccardo Ruggeri apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.

Caro dottor Del Vecchio,

pur non conoscendola (abbiamo solo un amico in comune) l’ho spesso citata nei miei libri e articoli, sempre in accoppiata a Michele Ferrero, gli unici due imprenditori-manager di grandi aziende, di cui il paese oggi dispone. Il primo dopoguerra fu dominato da Vittorio Valletta e da Enrico Mattei, erano grandi manager, ma sempre si comportarono da imprenditori (esercitarono poteri immensi, ma a fine carriera uscirono poveri, come erano entrati). Lei e Ferrero invece avete iniziato come imprenditori, ma vi comportate da grandi manager. Le confesso che, 10 anni fa quando lei prese come ceo Andrea Guerra, la considerai una «genialata», tanto Luxottica l’avrebbe continuata a guidare lei. Si era quotata in borsa, era entrata nel santuario di Wall Street, era opportuno avere un «sacerdote» che fungesse da interfaccia con i vari «mandamenti» (banche d’affari, società di auditing, di rating, consulenti di ogni tipo e cosca, etc.) che ruotano (e si nutrono) dei business che via via capitano fra le loro grinfie (per intenderci, stile Cuccia, però molto più radicalizzato). Il loro modello appare para mafioso, salvo che costoro vestono gabardine luxury vintage e non fustagno.

Da quando ho cessato di fare il ceo, studio l’evoluzione del mondo in cui sono vissuto. Pur non conoscendoli personalmente, analizzo i comportamenti organizzativi dei supermanager, i Guerra, i Marchionne, i Draghi, i Passera, i Profumo, a me non interessano come singoli, ma come casta, uno zoo umano estremo che passa dal privato al pubblico, alla politica, con invidiabile leggerezza. Non è questa la sede per approfondire, la rimando se crede al mio prossimo libro, che uscirà a metà ottobre Fiat, una storia d’amore (finita), ove troverà un capitolo dedicato a un supermanager latino-americano (certo Tommy) che riassume tutti i profili professionali e umani oggi in circolazione, spiegando compiutamente, dall’interno, questa fauna.

I supermanager si muovono seguendo, in modo rigoroso, dei protocolli molto più vincolanti di quelli per la cura del cancro, danno il massimo di loro stessi nel momento del colloquio di assunzione, supportati da head hunter di alto standing, banchieri, Fondi, che non solo garantiscono per il candidato, ma che elegantemente premono per l’assunzione. Per il supermanager l’atto dell’assunzione equivale a una principesca assicurazione sulla vita pagata da altri, per l’imprenditore all’iscrizione, spesso a sua insaputa, alla Scientology del business. Per lui i risultati spesso sono drammatici: o corre il rischio di perdere l’azienda o ne esce pagando mostruose penali.

Lei ha scelto la seconda opzione, si è ripreso il pallino, bene ha fatto, ha salvato il suo patrimonio, la sua famiglia, la Luxottica. Certo, quel contratto, pieno di clausole su bonus e stock option, deciso anni fa si sta chiudendo in termini (socialmente) osceni, quando farà l’addizione delle voci si accorgerà che il totale, in milioni, sarà a nove cifre. Mi creda, le è ancora andata bene, vedrà cosa succederà fra qualche tempo ad altri suoi colleghi. Leggo che intende prendere lei le deleghe operative, dividendole con uno con cui collabora da 46 anni. Bene farebbe, costui forse parlerà un inglese elementare, non saprà ordinare i vini giusti, tagliare i sigari con un colpo secco di cesoia, ma vi liberete delle inutili sovrastrutture precedenti, abbatterete i costi, migliorerete il processo decisionale, quindi il business.

Mi permetto di fare con lei la stessa considerazione che ho fatto tempo fa con mia nuora e mio figlio, anche loro imprenditori, ormai cinquantenni. Quello che noi chiamavamo capitalismo liberale ha assunto altri connotati, i prodotti, nati dalla triade classica del business «innovare-produrre-commercializzare», sono ormai delle commodities a risibile redditività, perché i profitti vengono sottratti, già in corso d’opera, dal modello di business imposto agli imprenditori dal Sistema. Un Sistema che richiede inutili strutture esterne pagate dall’azienda, con commissioni di ogni tipo e specie, «consulenze obbligatorie», tangenti mascherate da normative sanguisuga, infine tassazioni statali folli, riducendo «l’ultima riga in fondo a destra» del conto economico a un dolcetto-scherzetto alla Halloween, incapace di sostenere gli investimenti.

Quale alternativa suggerisco? Nel momento in cui un imprenditore valuta di non poter più gestire personalmente l’azienda, venda tutto, guai lasciarla ai figli, specie se giovani: immediatamente piomberebbero su di loro, sia famelici supermanager, sia osceni banchieri d’affari, pochi anni e gli ingenui perderebbero tutto. Il caso Esselunga deve essere di monito a tutti noi imprenditori, e Bernando Caprotti il nostro riferimento culturale e morale. È triste ammetterlo, caro Del Vecchio, i supermanager, con i politici e gli euro-burocrati che reggono loro il sacco, hanno vinto, prendiamo atto della nostra sconfitta.

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