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Perché la Nato è alla ricerca di nuovi scopi ed equilibri

Il summit NATO del 4-5 settembre in Galles potrebbe risultare decisivo per il futuro dell’Alleanza Atlantica, la più duratura e significativa partnership politica e militare dell’Era Contemporanea. Infatti, le risposte che saranno offerte ai principali punti in agenda, quali crisi in Ucraina, avanzata dello Stato Islamico in Medio Oriente, ritiro dall’Afghanistan, terrorismo internazionale e cyber warfare potrebbero finalmente determinare le linee evolutive di un’organizzazione che, volenti o nolenti, fatica tremendamente a trovare nuovi equilibri, identità e scopi in accordo con le grandi trasformazioni degli ultimi 25 anni.

Nel 1991, con l’implosione del blocco sovietico, l’Alleanza Atlantica non ha soltanto perso il suo avversario e la sua ragion d’essere iniziale, ma si è vista altresì privata di quell’antitesi politica, valoriale e strategica che ne giustificava le radici e gli obbiettivi. Lo spirito della fine degli anni 40 era quello di difendere quei Paesi e quei popoli che si riconoscevano nel sistema capitalista, nella libertà civile e politica e nella cooperazione paritaria. Occorre enfatizzare la parola difesa, in quanto questa rappresentava il nucleo dell’accordo tra Paesi che, fino al 1991, non intendevano esportare forzatamente il proprio modello all’estero. In questo senso, la Nato era un meccanismo di promozione e consolidamento democratico all’interno dei membri del club atlantico (pur in presenza di vistose deroghe, per cause di forza maggiore, come nel caso turco), e mai al di fuori di esso.

L’imperante realismo che caratterizzava la Guerra Fredda rendeva ammissibile, in nome di supremi interessi quali quello dello Stato e del suo popolo nonché la stabilità dell’arena internazionale, proficui rapporti con realtà autoritarie. In estrema sintesi, l’Alleanza Atlantica rappresentava un modello di integrazione figlia del suo tempo, una risorsa eccezionale in un mondo ingessato in rigidi schemi bipolari, caratterizzato da minacce di natura simmetrica e diviso da tante barriere comunicative, economiche e culturali, un mondo fisso in regole di interazione standardizzate e controllate da attori e metodologie poco flessibili.

Nel decennio 1991-2001, senza l’Unione Sovietica, in un mondo in trasformazione e nel contesto di una breve e fragile stagione di monopolarismo statunitense, la Nato ha provato a re-inventare se stessa, modificando il principio di difesa e divenendo uno dei tanti grimaldelli dell’esportazione del modello democratico occidentale nel resto del pianeta. Purtroppo, la fine della Guerra Fredda ha inebriato Washington, che nel decennio in questione (e forse ancora oggi), ha dimenticato come la vittoria sul socialismo reale è derivata dalla tenuta di un sistema complesso di valori politici e garanzie di sicurezza di cui gli USA costituivano un tassello fondamentale, ma non l’unico. In questo senso, la Nato ha accentuato un vizio di america-centrismo facilitato dalle divisioni e dalle incertezze del processo di integrazione europea.

Con questo spirito è stato realizzato l’allargamento ad est dell’Alleanza Atlantica, uno spirito che ha alimentato i detrattori del Trattato, pronti a sottolineare come questo altro non costituisse che uno strumento di mera politica egemonica di Washington sotto un ombrello di maggiore legittimità internazionale.
Se l’allargamento ad est non ha offerto risposte sostanziali alla domanda di senso strategica, allo stesso modo le guerre di Jugoslavia e, in alcuni casi, la lotta al terrorismo internazionale hanno messo in luce un’altra potenziale degenerazione dell’Alleanza, ossia quella di “poliziotto del Mondo” in grado di sopperire, quando necessario, alle lungaggini e ai limiti delle Nazioni Unite e del Consiglio di Sicurezza.

Tuttavia, anche questa strada appare pericolosa, in quanto potrebbe nascondere, ancora una volta, tendenze unilateraliste da parte dei membri più pesanti, venendo così meno a quel principio di cooperazione, condivisione e collaborazione che ne costituisce una delle fondamenta irrinunciabili.
Oggi viviamo in un mondo profondamente diverso sia da quello della Guerra Fredda sia da quello della “transizione” 1991-2001. La società e le economie globalizzate hanno abbattuto le vecchie barriere tra gli Stati, mentre l’iper-sviluppo tecnologico dei mezzi di comunicazione ha modificato e reso più semplici e diretti i rapporti tra diversi popoli, culture e ideologie. Oggi, quelli che una volta erano i principali avversari della Nato intrattengono fiorenti rapporti commerciali con i suoi membri ed hanno imparato ad utilizzare le loro armi non militari, quali deterrenza economica e potere finanziario, per conseguire i propri obbiettivi strategici giocando con le stesse regole dei liberi mercati capitalisti. La crisi ucraina, l’ascesa dello Stato Islamico e la crescente minaccia cyber hanno dimostrato come i fattori di instabilità della sicurezza mondiale abbiano mutato la propria natura, allontanandosi dalla classica struttura convenzionale.

In ogni caso, non sono le variabili militari a minacciare la tenuta e l’efficacia dell’Alleanza Atlantica, quanto gli interrogativi e la mancanza di una chiara e condivisa strategia politica. Se Kiev, spalleggiata da Washington e dalla nuova leva Nato riunita attorno alla Polonia, chiede all’Alleanza di proteggerla dall’assertività russa, i vecchi membri continentali non percepiscono la minaccia alla stesso modo e, anzi, non disdegnano la promozione di accordi di cooperazione militare con Mosca. Allo stesso modo, la Turchia, un tempo fedelissimo bastione anti-sovietico, non ha paura di interloquire con la Cina e di voltare le spalle al club atlantico nel momento in cui non si sente sufficientemente tutelata e appoggiata nel suo disegno di egemonia mediorientale. Questo è il vero rischio, ossia di doverci confrontare con membri disposti a piegare le regole della Nato per il proprio esclusivo tornaconto, dimenticando così l’intrinseca e irrinunciabile qualità dell’Alleanza, ossia la mutualità e il collettivismo della difesa.

In conclusione, un’alleanza militare inter pares può funzionare efficacemente se esiste una reale convergenza di interessi politico-strategici, altrimenti è destinata a divenire incapace di ottemperare ai propri scopi e doveri. Se negli anni della Guerra Fredda Europa e Usa marciavano più compatti di oggi in una medesima direzione di sviluppo, oggi qualcosa è cambiato, vuoi per le divisioni e le incertezze europee, vuoi per il singolare mix statunitense di unilateralismo dell’era Bush e pressappochismo e titubanza dell’era Obama.

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