La svolta strategica di questi mesi può essere messa in relazione a tre aspetti. Da una parte c’è l’ampliamento e l’intensificazione di un arco di crisi che va dall’Africa occidentale, attraverso il Sahel e il Medio Oriente, fino all’Asia centrale, un’ampia regione la cui instabilità si aggrava di giorno in giorno. Sovrapposta all’arco di crisi abbiamo un’area di “instabile deterrenza” che va dal Medio Oriente all’Asia orientale, dove ci sono Stati che detengono armi di distruzione di massa e missili, ma mancano regole del gioco che gestiscano i rischi associati a queste tecnologie militari.
Ciò che tiene insieme questi aspetti, il terzo aspetto da sottolineare, è il pieno affermarsi del multipolarismo dopo sei anni di crisi economica. Al concetto di multipolarismo eravamo preparati, ma ora è nella realtà. Non credo che in sé, questo sia un problema. Se mai la domanda è se avremo un multipolarismo guidato da regole comuni – auspicabilmente quelle sviluppate alla fine della Seconda guerra mondiale e della Guerra fredda – o se avremo un multipolarismo con regole differenziate. Il tema dunque non è riportare indietro il mondo all’unipolarismo o al bipolarismo, ma creare un sistema fondato su regole valide per tutti. Cosa significa tutto ciò per la strategia immediata della Nato, considerando in particolare la crisi ucraina?
Il primo punto che vorrei sottolineare è che il nostro software operativo generale, il Concetto strategico, resta valido e intatto. Ancora ha senso avere tre core tasks da svolgere contemporaneamente, e ha ancora senso concepire la sfida in termini tanto convenzionali quanto non-convenzionali. Nonostante dissensi e critiche che talora sono emersi sull’Alleanza, le nazioni attraverso la Nato sono state in grado di ribilanciare capacità spostandole da uno sforzo di stabilizzazione durato dodici anni (l’Afghanistan, ndr) alla difesa collettiva. Ecco perché le misure di rassicurazione messe in campo da Stati Uniti e alleati dimostrano la capacità di cambiare focus e adattarsi rapidamente al mondo reale.
È auspicabile che al vertice del Galles i capi di Stato concordino su quell’Alliance readiness action plan che è stato discusso a Bruxelles e che dovrà mandare un importante messaggio: la nostra non è un’alleanza monodimensionale. Saremo, invece, un’alleanza pronta a ogni sorpresa strategica, che venga da est, da nord o da sud. Penso dunque che finora siamo rimasti allineati alla sfida. Ma quale è lo scopo di più lungo termine dell’alleanza in questo mondo competitivo? Ciò dipende in primo luogo da quello che le nazioni vogliono che la Nato sia e faccia. Spesso si dimentica che l’Alleanza non è un’istituzione slegata dai suoi membri: quante risorse e quali obiettivi avrà la Nato dipenderà dalla volontà politica degli Stati membri.
Per il più lungo termine, in termini di postura, la risposta alle sfide potrebbe essere la “flessibilità strategica”. Riprendo la formula dalla dottrina enunciata da Richard Nixon a Guam, durante una giuntura difficile della politica estera americana, quando era necessario continuare il contenimento dell’Urss senza aumentare le spese militari. Lo stesso principio può essere adeguatamente applicato al contesto futuro della Nato. Flessibilità strategica vuol dire diverse cose. In primo luogo, che l’alleanza non potrà essere “a un solo fronte”, ma occuparsi di est, nord e sud, e anche di nuovi domini operativi come il cyberspazio.
In secondo luogo, che non saremo più un’alleanza on-off switch, che fa alcune iniziative, in genere ad alta intensità operativa, oppure non si muove per nulla. Forse dovremo orientarci verso un modello più graduato, in cui per esempio si acquisisce consapevolezza operativa ma non necessariamente si interviene – decisione che spetterà sempre al Consiglio atlantico, ma a valle di una discussione politica. Il terzo elemento della flessibilità strategica è che la risposta non dovrà essere necessariamente su larga scala e intensità. A questo riguardo dovremo continuare a riscoprire,aggiornandole e proiettandole al futuro, le virtù della deterrenza; dovremo concepire diversi metodi di crisis management, non solo attraverso il potere aereo come in Libia, ma anche aiutando con l’addestramento e la consulenza militare.
In altre parole, dovremo ampliare la cassetta degli attrezzi senza ridurci a mero strumento, ma diventando sempre più “politici”. La strada per la flessibilità strategica è lunga e passa anche dall’obiettivo del 2% della spesa militare sul Pil, che segnala la volontà politica di sostenere lo sforzo collettivo. Ugualmente importante, tuttavia, è dare un senso a quel 2% individuando precise priorità – cosa che spetta in particolare alle nazioni europee, più limitate degli Usa in termini di risorse. Bisogna insomma imparare a concentrarsi sulle aree in cui c’è maggiore rendimento, e sulle capacità che realmente aiutano nella maggior parte degli scenari.
Da questo punto di vista, già gli investimenti effettuati per la missione in Afghanistan saranno utili anche per la difesa collettiva. Dovremo dunque focalizzare gli investimenti collettivi sui moltiplicatori di forza, ovvero le capacità Jisr (Joint intelligence, surveillance and reconoissance), la struttura di comando Nato, l’addestramento e le manovre. Infine dovremo diventare, come detto, più “politici”. Non è una mozione di ordine generico.
La dottrina di Guam prevedeva di fare per via politica ciò che non era fattibile con strumenti militari. Si tratta dunque di mettere la struttura Nato e soprattutto il futuro Segretario generale nella condizione di svolgere un lavoro realmente politico- diplomatico. Questo non solo con la Russia, con cui dobbiamo trovare nuovi modelli previsionali, ma anche con organizzazioni regionali come l’Unione africana, che sono sempre più interessate a guidare le operazioni ma non sempre hanno le capacità per farlo. In definitiva, un’Alleanza più politica e diplomatica potrà “aiutare gli altri ad aiutarsi” e proiettare stabilità politica senza necessariamente proiettare forza.
Fabrice Pothier è capo della programmazione politica della Nato
Articolo pubblicato sul numero di luglio-agosto della rivista Airpress