Durante il vertice Nato del 4–5 settembre, vecchi spettri di un passato che si credeva morto per sempre si sono presentati agli occhi dei leader alleati, riuniti per il periodico vertice dell’Organizzazione.
Questi vecchi spettri, però, potrebbero aver sortito un effetto benefico, contribuendo a instillare, per una volta, saggezza nelle menti dei leader partecipanti al summit.
Fino a pochi mesi fa, si pensava che l’argomento principale del vertice sarebbe stato la sanzione della exit strategy dall’Afghanistan. Si trattava di un argomento doloroso, l’ammissione di una sconfitta – o di un “non successo” – le cui conseguenze dovevano essere comunque gestite, per ridurne gli effetti negativi.
Invece, nuove tensioni e nuove minacce, o meglio il riacutizzarsi di vecchi problemi – appunto gli spettri del passato – hanno spostato l’attenzione dei nostri decisori politici altrove. Bisogna dire che, almeno a quanto trapela dalle solite fonti bene informate, gli orientamenti emersi sarebbero decisamente incoraggianti per l’Occidente. La paura, infatti, sembrerebbe aver infuso saggezza in un consesso che non sempre si è rivelato all’altezza dei tempi, negli ultimi decenni.
Iniziamo dalla Russia. Gli anni dell’Unione Sovietica hanno lasciato uno strascico di rancori profondi nelle popolazioni che hanno dovuto subire a lungo il giogo di Mosca. I Paesi ex sudditi e gli ex satelliti del Cremlino, che sono entrati a far parte della Nato, nutrono infatti un misto di rancore, di paura e di diffidenza nei confronti del loro potente ex padrone; un atteggiamento logico, ma controproducente, visto che i tentativi degli anni passati di cooptare Mosca nel mondo occidentale sono falliti anche grazie alla loro riluttanza a procedere.
Ora che Putin ha intrapreso la stessa pericolosa strada, a suo tempo battuta da Hitler – il reintegro delle minoranze russofone nella madrepatria – questi Paesi si sentono in pericolo, e vedono che la perdita di potenza dei loro alleati maggiori, frutto di un debito pubblico crescente e delle conseguenti drastiche e ripetute riduzioni delle spese della difesa, li espone proprio a quei pericoli che essi avevano cercato di evitare, rifugiandosi sotto l’ombrello della Nato.
La Forza di intervento rapido, o meglio il suo nuovo nucleo ad altissima prontezza previsto dal “Readiness Action Plan”, che mira a rassicurarli, sarà infatti in grado solo di gestire le crisi, cercando di prevenirle dissuadendo i contendenti, in modo da calmare le acque e guadagnare tempo per i negoziati, ma non è una forza che imponga il rispetto e abbia effetto deterrente nei confronti di Mosca.
In breve, insieme alle misure di aiuto economico all’Ucraina, questa forza costituirà un mezzo per appoggiare la diplomazia, nel suo tentativo di convincere la Russia a fare, finalmente, i conti con il passato, senza tagliare del tutto i ponti con l’Occidente. In questo, appare apprezzabile la moderazione del comunicato, indubbiamente frutto di una paziente opera di mediazione, di cui l’Italia è probabilmente stata uno dei promotori.
Più interessante è invece il grido di allarme contro l’estremismo jihadista, lanciato dal vertice. Qui però bisogna ricordare le origini del problema. Il progetto della “Grande Siria” o del “Califfato” non è una novità, essendo solo la versione riveduta e corretta del sogno dello Sceriffo Hussein del 1919, il quale aiutò gli Inglesi contro gli Ottomani, nella speranza che Londra lo assecondasse nel realizzare la “Grande Arabia”.
In proposito, gli Stati Uniti, e l’allora Presidente Wilson, si erano mostrati possibilisti, in nome dell’autodeterminazione dei popoli, ma alla fine prevalse la visione anglo-francese, secondo cui l’unica garanzia di pace per l’Europa nel Vicino e Medio Oriente potesse derivare da un insieme di Stati equivalenti per dimensioni, popolazione e instabilità intrinseca. L’accordo Sykes-Picot, e il successivo trattato di Sèvres, materializzarono appunto questo convincimento.
Ora, con l’Arabia Saudita sospettata di aver ripreso il sogno di Hussein, prima sostenendo una guerra su scala mondiale contro “l’eresia Sciita”, e poi appoggiando le frange più integraliste della Sunna, ivi comprese quelle impegnate contro il regime siriano, l’Occidente si ritrova in una situazione di grave imbarazzo.
Le forze della Jihad sono ormai fuori controllo: l’Isis (o Is) sogna di acquisire la leadership della “Galassia jihadista”, a spese di Al Qaeda, e di realizzare il “Califfato”, anche al prezzo di un terribile bagno di sangue, a fronte del quale il genocidio armeno impallidirebbe. Ancora una volta, le forze dell’integralismo islamico sembrerebbero scappare di mano a chi le aveva favorite.
Dall’altro lato, vi sono i Curdi, il cui sogno d’indipendenza venne frustrato nel 1919, e che vedono nel caos che si preannuncia una possibilità di coronare il loro sogno plurisecolare.
Il calcolo fatto da queste due entità, interessate a sconvolgere la cartina geopolitica dell’area, si basa anch’esso sulla constatazione che l’Occidente ha perso forza economica e militare, e quindi sarà, prima o poi, costretto ad accettare un fatto compiuto.
A questo punto, è chiaro che solo l’unione delle forze può consentire all’Occidente di disporre dei mezzi economici, finanziari e militari, necessari per influire sugli eventi. Non è chiaro però quale linea sia stata concordata, sul Vicino e Medio Oriente: si vuole semplicemente evitare che vengano commesse atrocità, oppure si cerca di mantenere in vita l’architettura geopolitica concepita nel 1919 a Sèvres? E fino a che punto si è disposti a procedere?
Se non ci si mette d’accordo sul fine, o almeno sulla sua versione pratica, lo “End State” che si persegue, non vi sarà sforzo economico, finanziario o militare che abbia possibilità di successo. L’Occidente è stato diviso, ogni qualvolta gli opposti appetiti prevalevano, e i comportamenti tenuti da alcuni, nel corso della crisi libica lo hanno ancora una volta dimostrato. Bisogna vedere se ora prevarrà la saggezza, di fronte alla paura di possibili bagni di sangue nell’ex Impero Sovietico o nel Levante.
L’Ammiraglio di Squadra Ferdinando Sanfelice di Monteforte è docente di Storia delle Istituzioni Militari presso l’Università “Cattolica” di Milano, e di Strategia presso l’Università di Trieste – Polo di Gorizia. Ha ricoperto numerosi incarichi internazionali, tra cui quello di Rappresentante Militare per l’Italia presso i Comitati Militari Nato e Ue. È Presidente della commissione militare del Comitato Atlantico Italiano.