Il tema del lavoro rappresenta per le forze di sinistra e/o centro-sinistra l’argomento fondante della propria azione politica. Nel dirlo non pecco di superficialità. La sinistra si è costituita, storicamente, proprio a partire dal movimento dei lavoratori e ha perseguito nel tempo una politica atta ad ampliare la base di diritti e tutele per i lavoratori, contro un capitalismo feroce ed egoista.
Ad un recente incontro con un’importante esponente della SPD di Berlino – la Senatrice Dilek Kolat, responsabile per i temi del “lavoro, delle pari opportunità e dell’integrazione“; è stato affermato che la questione del lavoro è per un socialdemocratico l’argomento top e che ciò che ci distingue dalle altre forze politiche, specie quelle di centro-destra, è la politica del lavoro, mirata non solo alla costituzione di “posti di lavoro”, ma “posti di lavoro di qualità” intendendo con questo che si deve mirare ad ampliare la base delle tutele e delle garanzie (in generale i diritti); a limitare l’uso di contratti a tempo e i continui rinnovi che annichiliscono la possibilità di fare progetti e pensare ad un futuro da costruire; a restituire dignità al lavoro, qualsiasi esso sia (naturalmente purché legale e lecito!) e ristabilendo il primato del nostro agire politico in vista della costituzione di una società migliore.
Si intrecciano, sul tema del lavoro, più dimensioni: quella sociale, quella etico-politica e quella pratico-economica.
DIMENSIONE SOCIALE DEL LAVORO
Il lavoro è una delle attività fondamentali del vivere umano. Non citerò qua la ricchissima letteratura in merito, dico solo che c’è un meccanismo insieme psicologico e sociologico, per cui dal lavoro si costituisce l’identità (sociale) di una persona. Le persone si identificano col lavoro, attraverso di esso raggiungono obiettivi e ne costruiscono di continuo di nuovi, attraverso di esso sentono di essere presenti nel mondo e di avere uno scopo. Va da sé che questo è solo uno degli elementi (seppure uno dei più importanti) su cui si plasma l’identità di un Uomo ed è per questo che il tema è scottante e delicato. Per questo si dice che il lavoro è anche dignità e che senza un lavoro decente una persona entra in crisi, quasi una depressione: sente che la sua dignità di persona che vive in una collettività è stata sporcata, infangata, offesa, tolta.
DIMENSIONE ETICO-POLITICA
Perché mettere insieme le parole “etica” e “politica”? Perché la politica la intendo nell’accezione dei Hannah Arendt: come un “agire” che dà il senso del nostro “stare nel mondo”. E dunque c’è anche un che di etico (la ricerca de Senso delle cose) nel fare Politica (quella con la p maiuscola però!) e ci sono dunque anche valori/principi di riferimento che muovono il nostro agire in quanto “politici” e di questo non possiamo fare a meno. Il Partito Democratico di cui Matteo Renzi è il Segretario Nazionale, proprio grazie anche alla sua determinazione, è entrato a far parte della famiglia socialista europea e dunque ha dichiarato urbi et orbi la sua collocazione politica e ideale: a sinistra! O per lo meno nel centro-sinistra.
In tanti dicono, a torto (secondo me sì) o a ragione (secondo me no), che le ideologie sono finite e che parlare di “destra” o di “sinistra” non ha più senso. Se dobbiamo parlare delle vecchie etichette siamo d’accordo, ma se dobbiamo parlare dei valori che ispirano l’agire politico (quindi le premesse dell’azione!) si sbagliano in toto. Esistono eccome delle differenze ed esistono eccome sia la destra che la sinistra. Lo si vede nelle questioni legate, appunto, ai temi del “lavoro” e della “formazione” per esempio; così come nelle riforme “istituzionali”.
Ci sono per questo quelle cose chiamate “codice etico” e “manifesto dei valori” che un iscritto sottoscrive al momento di diventare membro dell’organizzazione (e che poi non legga il materiale e non sappia cosa ha firmato è un altro paio di maniche, e ahimé in molti dirigenti non conoscono né questi né gli statuti).
Come diceva la Senatrice SPD, per un socialdemocratico (e facciamocene una ragione, il PD è socialdemocratico ormai, ci sta provando, diciamo così!) il lavoro è il tema fondamentale, e soprattutto un lavoro di “qualità”. E su questo ci giochiamo tutto il nostro bagaglio identitario e non è “roba d’altri tempi” o “anacronismo” è il salvaguardare quello che sta alla base dell’appartenenza a questo gruppo anziché, non so, alla Lega Nord o a Forza Italia. Non di meno che dal partito comunista trotskista e leninista e così via.
DIMENSIONE PRATICO-ECONOMICA
In questo ambito stanno gli interessi meramente economici e della vita quotidiana. Il lavoro è anche un mero strumento per avere le risorse sufficienti per vivere (a volte purtroppo solo sopravvivere) e per partecipare all’arricchimento di imprenditori, gruppi e in senso più generale, del Paese. Anche in questo caso non tutte le ricette di politica economica si eguagliano e molto dipende proprio dalla concezione che si ha di “lavoro” e di “lavorare”.
Ci sono approcci economici del tutto diversi, dai neoliberisti ai keynesiani, e così via. E ci sono anche interessi diversi in base alla posizione che si occupa: l’idea di lavoro non è certo la stessa tra un operaio e un medico, tra un avvocato e un pescatore, tra un amministratore delegato e un imprenditore in senso lato.
UNIRE PER CAMBIARE VS DIVIDERE PER VINCERE
Proprio per le ragioni sopraesposte credo che il Premier Matteo Renzi dovrebbe abbandonare l’approccio un po’ arrogante e presuntuoso di sfida e di attacco frontale verso i sindacati e le componenti di minoranza del suo Partito. Questo gioverebbe a lui e al Paese, poiché su un tema come quello del “lavoro” è imperativo che si cerchi la compattezza e non la divisione, che lo scopo sia il cambiamento (positivo) e non la mera volontà di affermarsi e vincere una battaglia.
Quando si parla di lavoro, di tassi di disoccupazione o di occupazione, di cassa integrazione e di fallimenti d’impresa, ci si dimentica che dietro a quei numeri ci sono persone vere, vite drammaticamente colpite da eventi vissuti prima di tutto come “fallimento personale”. Non si gioca sulla pelle delle persone, e non si offendono le idee altrui, specie quelle interne al proprio partito.
Essere di centro sinistra in questo caso conta moltissimo, poiché è la ricetta stessa della riforma che cambia: non si propone più flessibilità a fronte di una sempre più debole tutela; non si consente alle imprese di giocare senza controllo sui rinnovi contrattuali, non si lede il diritto alla possibilità di avere un posto sicuro, non si tollera che il lavoro diventi uno spazio di scontro tra coloro che hanno dei diritti (acquisiti con decenni di battaglie) e coloro che non ne hanno (a causa degli abusi e della mancanza di regole chiare da parte dello Stato). Non si dipingono aree di lavoratori come “privilegiati” quando guadagnano 1000 euro al mese o 1200 se va bene (statali) contrapposti ai poveri disgraziati e anche volendolo fare, non si propone di abbassare il livello di garanzie e tutele, ma ci si sforza di portare le persone che non godono di questi “diritti” al livello superiore.
Non si fa un gioco al ribasso sui diritti, si compie lo sforzo necessario e dovuto affinché l’asticella venga alzata. Sì dà peso alla qualità e non alla mera quantità, per andare a modificare il dato statistico delle rilevazioni, senza impattare positivamente e in modo strutturale, sulla vita delle persone.
RETORICHE E SCONTRI
Nelle ricette di “destra” vige un principio: il lavoro come strumento (stop!) per arricchire l’impresa (divinità in terra!) e quindi l’imprenditore (il demiurgo!) che tanto fatica nel progettare e metter su l’impresa, e che ha il giusto guadagno dal lavoro manuale altrui (ovviamente per questi signori il lavoro altrui non ha né dignità né diritti).
E così, non a caso, le esternazioni di alcuni economisti neoliberisti (va da sé) dovrebbero far venire la pelle d’oca a chi si definisce (e lo si è detto!) socialdemocratico. Per esempio quando qualcuno afferma che “i lavoratori pesano troppo sull’impresa” o che “bisogna abbassare i salari” per uscire dalla crisi. Ebbene, per un socialdemocratico vale l’opposto: il lavoratore è una risorsa e l’imprenditore deve ringraziare che ad aiutarlo per realizzare la sua idea ci sono proprio i lavoratori. E che abbassare i salari non serve a niente, se vengono mantenuti i soliti privilegi.
Quello che rischiamo è l’inasprimento delle diseguaglianze (già molto accentuate) e una riproposizione di uno scontro di classe tra ricchi e poveri, tra migliori e peggiori, tra lavoratori e imprenditori. Il lavoro non è schiavitù e il lavoratore non è uno schiavo: questo è un caposaldo conquistato con enorme fatica in secoli di battaglie ed oggi sembra banale e scontato, ma non lo è. E la schiavitù ha tante facce, non occorrono frusta e catene per sentirsi schiavi, basta sapere di avere quella spada di Damocle sulla testa ogni 3-6 mesi per sapere se avremo o no il rinnovo di un contratto a 600-800 euro mensili, 1000 euro se sei fortunato. Mentre ci sono i soliti Paperoni che predicano il sacrificio e si lamentano delle tasse, quando hanno retribuzioni da capogiro, pur non facendo in concreto niente.
L’EQUITÀ COME SOLUZIONE
Ovviamente la questione tocca le idee e i valori. Le visioni del mondo e i nostri riferimenti culturali. Per me il lavoro è un diritto, va garantito e ci devono essere le giuste garanzie quando si richiede più flessibilità. Ma questa flessibilità, una parola orribile e abusata che è un po’ una scusa per poter giustificare tutto e di più, deve essere anche limitata perché lo scopo, tempi cambiati o meno, è di avere stabilità (insomma, ci si affanna per la stabilità dei governi, mentre dell’instabilità del lavoro nessuno si sconvolge?) perché solo con la stabilità le persone possono progettare e decidere di metter radici, da soli o in compagnia, avere o meno figli, adottarne o occuparsi di altri e così via.
L’equità è la via maestra ed è un valore di sinistra, inutile negarlo. Così come la solidarietà e il senso di giustizia sociale. Elementi che dovrebbero essere legati insieme per guidare l’agire politico di chi si trova in questo Partito neo-scoperto socialdemocratico.
L’equità in questo caso comporta di fare una vera battaglia per la legalità che non vuol dire solo combattere la criminalità organizzata e le mafie, ma richiedere che tutti i cittadini si comportino secondo le leggi e che contribuiscano come è giusto che sia al successo del progetto “collettivo”. Questo vuol dire: pagare le tasse, combattere evasione ed elusione fiscale, e non abbiatene a male, ma è abbastanza chiaro che questo comportamento non legale e antisociale è praticato per lo più da commercianti, dagli imprenditori (piccoli o grandi) e dai liberi professionisti, poiché un lavoratore dipendente con busta paga difficilmente può evadere e nascondere capitali, salvo casi particolari. Alla flessibilità si faccia seguire più rigidità nelle regole e più controlli, e se uno sbaglia paghi davvero e anche molto.
Una cosa accomuna le posizioni economiche classiche neoliberiste e keynesiane, ossia la rilevanza del “rispetto delle regole” come precondizione affinché il sistema funzioni bene. E dunque, se tutti quelli che ora evadono o ingannano, rispettassero le regole del gioco, avrebbero meno problemi nel tenere i lavoratori e starebbero comunque meglio. Ma la logica del free rider prevale e così ci si vuole arricchire a prescindere dagli effetti che si producono sulla collettività, salvo poi non assumersi le responsabilità del caso e accusare i lavoratori di “essere esigenti” e di “volere la paga”.
Eh già, di questo passo anche essere pagati per lavorare rischia di diventare, una richiesta troppo esigente da rispettare.