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TFR in busta paga, Tafazzi a Palazzo Chigi

Il Premier Renzi nella sua serie di annunci a getto continuo ha ipotizzato che parte del TFR potrebbe essere riconosciuto da subito nella busta paga dei lavoratori dipendenti. Questa riforma sarebbe nell’intenzione del governo uno strumento per rilanciare i consumi e quindi spezzare la spinta deflazionistica in atto nel nostro paese, in sostanza cercare di curare un malato cronico come l’Italia con la somministrazione dell’Aspirina.

Premettendo che da un punto di vista teorico sarebbe corretto che tutti i lavoratori potessero disporre da subito di tutte le componenti del proprio salario, senza differimenti come avviene in quasi tutti i paesi europei, in una logica di “sporchi, maledetti e subito”, questa operazione rischierebbe di essere a saldo negativo e non solo per il rilancio dei consumi come la vicenda dei famosi 80 euro sembra aver ampiamente dimostrato in questi mesi.

Nel nostro ordinamento il TFR deve essere corrisposto al lavoratore in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro e quindi indipendentemente dalle motivazioni che l’hanno determinata. Prescindendo quindi da quelli che hanno effettuato un cambio di azienda non pochi in questi anni hanno usato questa somma accantonata per attutire il devastante impatto di un licenziamento in un sistema privo di ammortizzatori sociali universali come un vero e proprio sussidio di disoccupazione a scalare nel tempo in modo da disincentivare i percettori del sussidio a non cercare una nuova occupazione.

Inoltre la legge prevede alcune ipotesi nelle quali parte del TFR accantonato può essere anticipato nel corso del rapporto tra le più significative l’acquisto della prima casa o fare fronte a gravi malattie.

Infine dal 2007, il TFR ha assunto la finalità prevalente di strumento di finanziamento previdenziale con l’obbligo per i lavoratori di decidere al momento dell’assunzione la destinazione del TFR maturando a forme pensionistiche complementari.
Quindi il Trattamento di Fine Rapporto si è consolidato infatti negli anni, come una sorta di coperta di Linus per tutta una serie di fattispecie volte a tutelare il futuro del lavoratore di fronte agli imprevisti che potrebbero verificarsi nel corso della propria esistenza e non solo come una fonte alternativa di reddito al momento della pensione.

Tra queste non è da sottovalutare il fatto che questa forma di salario differito, oltre a essere stato nel tempo una fonte di liquidità per le piccole e medie aziende, è una delle poche forme di garanzia reale che i lavoratori possono fornire per poter accedere a forme di credito personale.
Non è un caso che lo scorso anno le Cessioni del Quinto dello Stipendio, ovvero una forma di prestito personale con trattenuta in busta paga direttamente dal datore di lavoro e garantito dal TFR accantonato dal lavoratore, sia stato uno dei comparti con segno positivo (+ 3,3% fonte Assofin) in un asfittico mercato del credito al consumo ( – 5,3% fonte Assofin) per non parlare del mondo dei mutui ipotecari in caduta libera.

E’ per questi motivi che i principali gruppi bancari italiani in un periodo di difficoltà di funding hanno rivalutato questo strumento finanziario la cui origine si perde, allo scopo di finanziare i soli dipendenti pubblici, nella notte dei tempi in un Italia post-bellica e che dopo essere stato considerato una sorta di subprime all’italiana per protestati o soggetti privi di fidejussori abbia avuto una rinascita con prima estensione al settore privato e poi ai pensionati, unici soggetti che sembrano avere un reddito “sicuro” in questo paese disastrato. Inoltre tutte queste forme di finanziamento sono garantite anche da una polizza assicurativa obbligatoria per legge che prevede l’estinzione del debito residuo in caso di perdita di impiego per qualunque causa.

Questa riforma avrebbe quindi come effetto collaterale quello di rendere ancora più difficile per milioni di lavoratori l’accesso al credito in un momento complesso della nostra economia. Stiamo parlando di un mercato di 2,3 miliardi di euro non contando i quasi due miliardi di cessioni ai pensionati e altre forme di finanziamento correlate come le delegazioni di pagamento. Nel complesso si tratta di quasi 250.000 operazioni di finanziamento che non troverebbero altro sbocco sul mercato.

Per quanto sopra sarebbe su questo punto opportuno che il governo facesse un’approfondita analisi di impatto economico delle norme in via di elaborazione per evitare che come per gli 80 euro gli sbandierati benefici non vengano vanificati dagli effetti collaterali della norma in forma di tasse occulte o palesi.

Quindi è auspicabile che almeno in questo caso all’annuncio non faccia seguito un provvedimento i cui effetti negativi sembrano di gran lunga superare un del tutto ipotetico rilancio dei consumi.



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