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Tutte le bizzarrie del caso Eni-Nigeria

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori e dell’autore, pubblichiamo il commento di Gabriele Capolino uscito ieri sul quotidiano Mf/Milano Finanza diretto da Pierluigi Magnaschi.

Succede che Claudio Descalzi, amministratore delegato da quattro mesi dell’Eni , è stato per decenni in Africa e in altre parti del mondo assai poco piacevoli, a fare il suo mestiere: trovare giacimenti di petrolio o di gas a buon prezzo, per fare gli interessi di Eni, dei suoi dipendenti, dei suoi azionisti e delle casse dello stato italiano.

Succede che nel 2010 Gianluca Di Nardo, investment banker italiano, braccio destro di Francesco Micheli da sempre, aveva avuto una relazione sentimentale con la sorella di tale Emeke Obi, un nigeriano in buoni rapporti con Daniel Etete, ex ministro del petrolio nigeriano. Come solo da quelle parti può accadere, Etete aveva fondato una società, la Malabu Oil and Gas, il 24 aprile 1998 (mentre prestava servizio come ministro del petrolio) in cui erano soci Mohammed Sani Abacha (un figlio del defunto Sani Abacha, dittatore e padre padrone della Nigeria, scomparso nel 1998) Kweku Amafagha (che era lo stesso Etete sotto falsa identità) e Hassan indù (moglie di Hassan Lawal, ex ministro nigeriano e Alto Commissario per il Regno Unito).

Cinque giorni dopo che la società veniva costituita, il dittatore Sani Abacha, le assegnava due blocchi petroliferi, OPL 245 e OPL 214. Alla morte del dittatore, il presidente che gli era succeduto, Obasanjo, aveva revocato quelle licenze e le aveva assegnate alla Shell. Ma dopo una serie di cause nigeriane alla fine nel 2006 l’OPL 245 ere ritornato nelle grinfie di Entete. Che a quel punto decideva di vendere.

Succede che Di Nardo non aveva agganci in Eni, ma ricorreva a Luigi Bisignani (conosciuto da anni tramite Micheli) per chiedere di farlo entrare in contatto con i piani alti della società. Ovviamente, se la cosa fosse andata in porto, gli avrebbe riconosciuto una parte della commissione a Bisignani, dietro pagamento di regolare fattura, così come dichiarato dallo stesso Di Nardo nell’inchiesta P4 del 2010 al magistrato italiano John Woodcock.

Succede che Bisignani metteva in contatto Di Nardo con Scaroni e quest’ultimo lo indirizzava per competenza a Descalzi. Quest’ultimo prendeva a trattare, insieme a Shell, con Obi ed Etete.

Succede che però questo Etete ormai in Nigeria e all’estero aveva una fama consolidata di corrotto, acclarata da molteplici inchieste internazionali (e una condanna nel 2007 in Francia, dove però non risulta che Elf o altri rei confessi pagatori di tangenti a Etete siano stati incriminati: a essere condannato è stato solo il percipiente) e avere a che fare con lui è da escludere.

Succede che l’Eni e Shell decidevano quindi di non avere a che fare con Etete e compagnia, ma con il governo nigeriano direttamente, pagando quello che reputavano conveniente. Il governo accettava e incassava nell’aprile 2011 1,3 miliardi di dollari, 1,1 miliardi pagati da Eni e 207 milioni da Shell.

Succede che, come ricostruito dal sito SaharaReporters, poco dopo il presidente nigeriano Goodluck Jonathan approvava il trasferimento di 1,1 miliardi di dollari sul conto di Londra della compagnia di Etete, la Malabu Oil, che poi provvedeva a distribuirne parte ai conti dei soci in affari e compari di funzionari governativi. Tra i beneficiari un tale Abubakar Aliyu, un individuo con stretti legami con lo stesso presidente Jonathan, che, secondo SaharaRepoters, ha beccato 532 milioni di dollari attraverso diverse società di sua proprietà.

Succede che, avuto sentore del maxi incasso da parte di Etete, Obi e Di Nardo si sono arrabbiati non poco: il cicccione ex ministro aveva loro conferito regolare mandato a vendere ma non aveva loro riconosciuto nulla. I due si sono rivolti alla Corte d’appello inglese. Ma diversamente dall’Italia, intentare una causa del genere a Londra è tremendamente costoso, e Obi soldi non ne aveva. Di Nardo decideva di coprire lui le spese processuali , 5 milioni di sterline. Un buon investimento, visto l’esito finale.

Lady justice Elizabeth Gloster, la stessa che aveva sentenziato nella causa stramiliardaria tra Boris Berezovsky e Roman Abramovich, ha dato ragione a Obi e condannato Entete al pagamento di 110 milioni di dollari, pari al 10% dell’affare. Di questi, il 25% era la parte di competenza di Di Nardo. La Gloster demoliva la difesa di Entete, che identificava Obi come emissario Eni, così da non dover pagare nulla. E disponeva il congelamento della somma di 110 milioni, a cui se ne aggiungeva uno successivo per altri 90 milioni.

Succede che lo scorso 5 luglio Eni ha ricevuto un’informazione di garanzia ai sensi della famigerata legge 231/01 (responsabilità amministrativa d’impresa) per non aver saputo prevenire la dazione di tangenti ai nigeriani da parte di un suo dipendente, nella fattispecie Roberto Casula, il plenipotenziario africano dell’Eni.

Succede che il 31 luglio sono stati recapitati avvisi di garanzia a Paolo Scaroni, Claudio Descalzi, Casula Etete e Bisignani per corruzione internazionale.

Succede che, secondo quanto riporta il Corriere della Sera, un magistrato italiano il 4 settembre scorso ha inviato una testimonianza scritta, su richiesta della South Crown Court, affermando che l’Eni “ha ottenuto un profitto dalla partecipazione allo schema di corruzione: questa non è un’asserzione implicita ma un fatto storico: Eni ha ottenuto la licenza a condizioni molto favorevoli e senza gara”. Chi scrive non è un magistrato nigeriano (che avrebbe un qualche interesse a farlo, visto che il paese leso è quello africano), ma uno italiano.

Succede che digitando su google la parola Eni e il nome di quel magistrato italiano compaiono 107 mila notizie, le prime risalenti al 15 luglio 1993, quando il magistrato, nel corso dell’inchiesta Eni-Sai stese un parere negativo sulla scarcerazione dell’allora presidente Eni, Gabriele Cagliari, e la inviò al gip, che la ricevette il 17 luglio. Prima che il gip potesse rispondere, il 20 luglio, Cagliari viene trovato morto a San Vittore. Seguirono ispezioni ministeriali, procedimenti disciplinari e un processo per abuso d’ufficio e omicidio colposo, che si concluse nel 1996 con un’archiviazione a favore del magistrato stesso.

Succede che da 22 anni tutte o quasi le inchieste sull’Eni riguardanti presunte corruzioni internazionali per aggiudicarsi sfruttamenti di giacimenti petroliferi in Kuwait, Iraq, Kazahstan e nel resto del pianeta, fino alla decapitazione dei vertici di Saipem nel 2013 per una presunta tangente algerina, portano la firma dello stesso magistrato.

Succede che nel caso di Saipem, a fronte della suddetta inchiesta, la società ha visto evaporare la metà della sua capitalizzazione di borsa, da 15 a 7 miliardi di euro, diventando un’anatra zoppa da che era protagonista dell’oil drilling mondiale, e solo i salti mortali dell’attuale management riescono a difenderla dall’ostracismo internazionale degli enti appaltanti.

Succede che tutti i giornali del mondo, soprattutto quelli anglosassoni, hanno riportato la notizia che il nuovo numero uno di Eni è già indagato per corruzione.

Succede che il valore del campo OPL 245 oggi, valorizzato come solo una compagnia seria può fare, vale circa 3 miliardi. Le sue dimensioni sono tali da poter approvvigionare tutto un paese come la Cina per due anni e mezzo.

Succede che dal 2013 The Metropolitan Police’s Proceeds of Corruption Unit (Pocu) a Londra sta indagando sulla faccenda, ma finora nessuno della Royal Dutch Shell è stato raggiunto da analoghi provvedimenti.

Succede che Alice nel paese delle meraviglie l’hanno scritto in Inghilterra 150 anni fa, ma oggi in Italia è ancora un best seller nei palazzi di giustizia.


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