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Usa al bivio: Il crepuscolo della Social Security

Mi torna in mente, mentre sfoglio le tristezze attuariali dell’ultimo rapporto sulla social security americana, uno dei poster col quale l’amministrazione Roosevelt presentò all’opinione pubblica il Social Security act, approvato nel 1935, e rivedo la faccia in bianco e nero, bonaria e sorridente, di un vecchietto che assomiglia a Robin Williams, con la pipa in bocca, appena sotto la scritta “More security for the american family”, e più in basso una spiegazione che illustra come la nuova legge avrebbe consentito una maggiore protezione sociale ai lavoratori vicini alla pensione. Offrire sicurezza, nei terribili anni ’30, sembrava una scelta razionale per un governo che guidava un paese ricco e ancora gonfio di riserve d’oro, seppure piegato dalla peggiore depressione economica della storia.

Solo che il New Deal non fu un incidente della storia. Fu un preciso cambio di paradigma economico che gli Usa, risultati poi vincitori della peggiore guerra della storia, finirono con l’imporre a tutta la parte di mondo finita sotto la loro tutela, e col quale ancora oggi siamo chiamati, Usa in testa, a fare i conti.

La domanda di sicurezza, economica e militare, alimentata da ottant’anni di consuetudine, ormai è diventatata un’ossessione degli americani fino a fare accettare loro incredibili scambi con le libertà civili che pure li hanno resi famosi e ammirati. Giocoforza perciò chiedersi cosa saranno disposti a fare gli Usa, e noi con loro, per saziare questo appetito ormai incommensurabile, pur non essendo più, e da tempo, un paese economicamente sano, secondo almeno quelli che sono gli standard riconosciuti.

La storia ci ricorda che a metà degli anni ’60, quando l’America già pativa importanti squilibri esteri e fiscali, l’amministrazione Johnson, quella della Great society, non si peritò di spingere sul pedale della spesa pubblica, sempre per migliorare la sicurezza sociale, varando due importanti (e costose) riforme che si aggiunsero all’armamentario del ’35, ossia il Medicare e il Medicaid anche questi tuttora vigenti, che fecero schizzare ancor più alto il costo della sicurezza e generarono nel mondo diverse ansie che finirono col generare la crisi del dollaro di fine anni ’60.

Mutatis mutandis, la situazione si sta ripetendo ai giorni nostri. L’amministrazione Obama ha aumentato la spesa per il welfare, con la riforma della sanità, e intanto però deve fare i conti con una stuazione finanziaria della social security quantomeno traballante. E sarebbe errato sottovalutarla.

La social security americana, leggo nel rapporto presentato il 28 luglio scorso dal comitato che lo gestisce, nel 2013 si basa sui redditi di 163 milioni di americani, più della metà della popolazione, che poi è la stessa quota che ha versato i contributi (payroll taxes) per sostenere questo gigante del welfare che funziona come un normale sistema a ripartizione, ossia i contributi di oggi servono a pagare le prestazioni di ieri.

I due programmi OASI e DI hanno provveduto ad elargire pagamenti a circa 58 milioni di persone: 41 milioni di lavoratori in pensione o a carico di pensionati, sei milioni di parenti di lavoratori deceduti e 11 milioni di lavoratori con disabilità o di familiari a loro carico.

Il problema è che le tasse pagate da 163 milioni di americani non bastano più a sostenere i pagamenti dei benefit a questi 58 milioni.

La spesa totale per l’OASDI, che combina i due programmi, è stata nel 2013 di 823 miliardi di dollari. Il totale delle entrate è stato di 855 miliardi, ma attenzione: di questi solo 752 miliardi derivano da contributi, mentre i restanti 103 miliardi sono il frutto dei guadagni da interessi sulle riserve, che sono investite in titoli di speciali emissione del Tesoro Usa e in normali bond americani. Nel corso del 2013 le riserve sono passate da 2.732 miliardi di dollari a 2.764.

Il primo problema nasce dal fatto che nel 2011 il governo americano ha preso in prestito 2.700 miliardi di queste riserve, per usarle per la sua politica fiscale, dando in cambio particolari obbligazioni che il Tesoro redime ogni volta che ce n’è necessità, e adesso si limita a pagare ai trust della social security gli interessi sui bond. Questo debito viene classificato come debito intergovernativo, e si dibatte molto se debba essere considerato ai fini del calcolo debito/pil oppure no.

Il secondo problema nasce dal fatto che il costo del social security, sin dal 2010, supera quello degli incassi fiscali, anche a causa della decisione del governo di abbassare per il 2011 e il 2012 la quota di contributi a carico del lavoratore del 2%. Per la cronaca, i contributi totale ammontano al 12,4%, suddivisi a metà fra lavoratori e datori di lavoro. Nel 2013 questo deficit è stato di 76 miliardi di dollari, nel 2014 si stima raggiungerà gli 80 miliardi.

Ma c’è di più. Le riserve combinate dei due trust che gestiscono i titoli dovrebbero essere adeguate a sostenere il flusso dei pagamenti per i prossimi dieci anni, ma poi inizieranno a consumarsi, obbligando il Tesoro a redimere sempre più titoli per coprire i deficit della gestione.

Le riserve del trust dedicato al programma DI si prevede saranno esaurite nel quarto trimestre 2016, rendendo il fondo capace di erogare prestazioni solo all’81% dei beneficiari. Per dirla con le parole del comitato, “il trust DI non soddisfa i test a breve di adeguatezza finanziaria”. E malgrado le riserve combinate dei due trust siano destinate a crescere fino a 2.878 miliardi a fine 2020, nello stesso tempo il rapporto fra riserve e costo scenderà dal 320% del 2014 al 233% del 2020.

A partire dal 2020, poi, il costo annuale della social security eccederà i ricavi totali, compresi quindi quelli da interesse, provocando un declino delle riserve che scenderanno a 2.698 miliardi nel 2023, portando il rapporto riserse/costi al 183%, fino a quando, nel 2033 le riserve combinate saranno completamente esaurite. Ciò comporterà che il programma potrà erogare benefit solo al 77% degli iscritti complessivi. A meno che il Tesoro americano non si faccia carico dei deficit reperendo, fra il 2023 e il 2033 circa 3 trilioni di dollari per coprire il buco che si andrà a cumulare nelle due gestioni. La qualcosa in un paese fiscalmente in difficoltà come gli Usa non è certo entusiasmante.

Separatamente, lo abbiamo visto, le riserve per il programma DI sono previste in esaurimento a fine 2016, quelle del programma OASI a fine 2035. Ciò a fronte di un costo dei due programmi pari al 4,9% del Pil, nel 2014, che salirà fino al 6,2% nel 2035, a causa delle variabili demografiche insiste nelle proiezioni.

Il deficit attuariale, nelle proiezioni a 75 anni, calcola in oltre 10 trilioni di dollari il buco della Social Security, un trilione in più rispetto alla stessa previsione di un anno fa. La qualcosa è sufficiente a capire quanto la situazione sia scivolosa. E anche perché i gestori invochino a gran voce una riforma dell’intero sistema, come d’altronde ha fatto il Fmi nel suo ultimo staff report sugli Usa.

E qui torniamo al punto. Le riforme: ma che vuol dire?

I gestori suggeriscono sostanzialmente un aumento delle tasse, portandole dal 12,4 al 15,23%, ossia il 22,8% in più, oppure una riduzione dei benefici erogati fra il 17,4 e il 20,85% a seconda della platea scelta. Meglio ancora, un approccio combinato dei due. In sostanza un dimagrimento dei benefici per gli iscritti e un dimagrimento di reddito per chi versa.

Bisogna avere meno sicurezza economica per avere più sicurezza economica, sembra di capire. Lo stesso pensiero che fa rinunciare a un po’ di libertà per avere più sicurezza contro i cattivi là fuori.

E’ questo il meraviglioso paradosso del nostro tempo.


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