Dal trasformismo di Depretis all’euforia eccessiva per il 41 per cento raccolto dal Pd renziano nelle europee del 2014, la storia della sinistra è densa di proposte cervellotiche, cedimenti colonialisti, settarismi dividenti le masse popolari e proletarie, presunzioni egemoniche dovute alla passività della cultura commerciale, incapacità di misurarsi con il resto del mondo (sempre complesso) della politica, lotte per il potere interno che sembrano discendere dallo scontro permanente dei corporativismi medievali e sostanziarsi di mitologie egualitariste corrette dai diritti acquisiti e discriminatori.
Eppure, sono ancora scarse – dentro le varie compagnie del pensiero contrappositorio e presuntuoso – le persone che vanno decidendosi a riconoscere che tutte le esperienze comunistiche realizzate (non solo nel Novecento e nel XXI secolo), sono dovute molto poco alla insufficienza (o agli eccessi) degli uomini, molto più all’inefficienza e alla fallibilità dei sistemi economico-politici sinistrorsi in sé. Il bolscevismo, per dire, è imploso non soltanto per il suo autoritarismo semplificatorio della pluralità dei propositi individuali (e delle contestuali distanze siderali fra classi di potere e classi subordinate sino al limite della schiavizzazione), ma soprattutto per l’impossibilità delle teorie economiche comunistiche di elevare i livelli di vita della stragrande maggioranza delle popolazioni soggette a regimi totalitari.
Ma è l’esempio della Cina, col suo passaggio dal socialismo al capitalismo di Stato e alla scoperta dei mercati occidentali conquistati in progressione imitandone illegalmente le invenzioni e subordinando gli addetti alla produzione a regole di reclutamento e di utilizzazione di tipo schiavistico, che ci conferma non la bontà di un sistema economico collettivista, bensì la straordinaria capacità occupatoria cinese dei mercati occidentali adottando salari di fame, sfruttamento femminile e minorile, nessun rispetto dell’individuo-lavoratore. Per non parlare della prosecuzione della natalità programmata e della programmazione abortista per nascituri di sesso femminile.
L’Italia di sinistra, oggi, pur disponendo di un potere enorme, diffuso e chiuso nel suo conservatorismo, è la prima a prendere atto che tutte – ma proprio tutte – le esperienze collettivistiche passate hanno fallito. E Renzi non rottama più soltanto la nomenclatura anchilosata per vecchiaia e decadimento, ma le stesse impostazioni sindacal-economiche che fanno ulteriormente peggiorare un Paese in progressiva recessione avanzata.
La volontà è di cambiare verso onde evitare il default. I risultati – specie a ragione della resistenza delle corporazioni interne – la giudiziaria in testa – è che, senza il “soccorso azzurro” (cioè del variegato e non proprio compatto centrodestra berlusconiano), l’Italia va ancora più a rotoli: perché sono in troppi i renitenti al cambiamento. E questo non si può addebitare al pur facilista Renzi, ma a quanti congiurano per tornare indietro piuttosto che muoversi in avanti e rifiutano aprioristicamente di ricercare un modus vivendi pacificante e non contrapponente o, quanto meno, un minimo di distensione fra grandi forze politiche.