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Vi spiego perché la Bce sta sbagliando (quasi) tutto

In uno degli ultimi numeri dell’Economist è stato pubblicato – con un titolo ironico molto british – un grafico della crescita monetaria dell’euroarea dal 2007, data di inizio della crisi mondiale originata dalla conduzione sconsiderata della finanza americana; in esso si evidenzia che Stati Uniti, Regno Unito e Giappone hanno costantemente pompato moneta nelle loro economie, mentre la BCE dal 2012 ha ridotto i suoi interventi in coincidenza della decisione del Presidente Draghi di svolgere, dopo tante esitazioni, il ruolo indispensabile per una banca centrale di “prestatore di ultima istanza” qualsiasi fosse la dimensione dell’intervento necessario. È noto che, se il mercato crede a queste dichiarazioni, gli interventi necessari per contrastare la speculazione cessano. La caduta della creazione monetaria europea può essere la conseguenza di questo ben noto effetto, ma altre cause hanno certamente concorso.

Una spiegazione è che Draghi, una volta cessato di creare base monetaria attraverso l’acquisto di titoli pubblici, avrebbe dovuto sostituire questi interventi con altri direttamente collegati alla ripresa produttiva. Invece è tornato all’interpretazione ridotta del suo Statuto limitandosi a finanziare le banche, invece di passare subito alle decisioni annunciate a luglio, ma avviate solo a settembre. Le banche hanno utilizzato, consenziente la BCE, i minori finanziamenti ricevuti per acquistare titoli di Stato e hanno lesinato, per timori di ulteriori insolvenze, il credito alle imprese, contribuendo ad aggravare gli effetti delle esitazioni della BCE nel contrastare la recessione deflattiva. I motivi li conosciamo: invece di considerare prioritario l’obiettivo di sospingere crescita e occupazione, l’Unione Europea ha privilegiato la stabilità finanziaria degli Stati membri imponendo vincoli tanto più stringenti quanto più grave era la crisi nazionale. La BCE ha assecondato e tuttora asseconda questa politica suicida.

La recessione produttiva accompagnata da deflazione dei prezzi e aumenti di disoccupazione è una combinazione micidiale per lo sviluppo economico e civile, con effetti più marcati sulle aree arretrate, come il Mezzogiorno d’Italia. Si può fondatamente sostenere che la BCE ha sbagliato politica a causa delle sue previsioni errate di crescita della produzione e dei prezzi e ora deve fronteggiare la situazione con armi spuntate. In questi casi l’efficacia della politica monetaria a tassi quasi nulli, spesa pubblica in declino e domanda aggregata calante è pressoché nulla. I testi di economia elementare la chiamano “trappola della liquidità” e in essa la BCE è caduta in pieno.

Per quanto riguarda il Mezzogiorno si può quindi concordare con coloro i quali insistono sugli errori di politica economica dell’UE e si punta molto su modifiche ai vincoli fiscali (la tanto conclamata flessibilità) e su maggiori investimenti pubblici (da affidare alla Banca Europea degli Investimenti). Queste decisioni sono improcrastinabili per dare fiato all’economia e impedire una caduta ulteriore della crescita reale, dell’occupazione e dei prezzi che complicherebbero ancor più la ricerca di una soluzione. Ammesso che vengano decise (e le reazioni negative ancora prevalgono), non sarebbero però la soluzione del problema né europeo, né meridionale. Il difetto è nell’architettura istituzionale europea che è afflitta da: 1. una banca centrale con poteri limitati rispetto a quelli delle altre principali banche centrali del mondo e, di fatto, poco indipendente sul piano intellettuale e politico dagli organi europei, con un aggravante sul fronte tedesco; 2. una Commissione dipendente dalla volontà molto divergente tra i membri del Consiglio dei Capi di stato e di governo, l’unico abilitato a decidere la politica economica europea; 3. un Parlamento che è un pallido esempio di democrazia rappresentativa; 4. l’assenza di una volontà di procedere alla necessaria unificazione politica. Queste istituzioni hanno mostrato che non possono funzionare, ma non si riesce a trovare un consenso per cambiarle.

Il Mezzogiorno resta schiacciato da questa bardatura istituzionale. I vincoli di bilancio pubblico, aggravati da una loro estensione più rigida a livello locale, unitamente a un credito che non affluisce più alla produzione, hanno precluso la possibilità di attuare un progetto di completamento della sua infrastrutturazione materiale e immateriale e la concessione di una fiscalità di vantaggio che l’aiuti a uscire dallo stato di grave dualismo in cui è ricaduto. Che il Mezzogiorno abbia i suoi torti è un dato di fatto, ma essi non giustificano che i gruppi dirigenti nazionali ed europei si ritengano assolti dall’attuare politiche di sviluppo economico e civile. Deve quindi scrollarsi di dosso la bardatura imposta e recuperare fiducia nelle proprie possibilità indipendenti di riscossa. Abbiamo speso giorni e giorni in lunghe e interminabili discussioni sul tema senza nulla ottenere. Credo ormai che sia indispensabile l’avvio di un movimento civile che porti alla nascita di un partito meridionale e meridionalista, non indipendentista, che rivendichi con forza il rispetto dei principi di libertà e di equità del contratto sociale che ci lega all’Italia e all’Europa. Siamo disposti a discuterne seriamente?


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