Merkel e Schauble vogliono passare alla storia come le due figure che hanno azzerato il disavanzo pubblico e iniziato La prima pagina del Mail del 27 settembre 1961 a ridurre in modo deciso il debito tedesco. È da anni che ci lavorano, è il sogno di una vita e se qualcuno chiede loro di spendere, spendere, spendere per salvare l’euro si sentono come l’alpinista a pochi metri da una grande cima inviolata cui venga chiesto di tornare subito indietro perché a casa hanno bisogno di lui.
In nome dei suoi feticci sulla spesa pubblica la Germania accetta di crescere poco, di avere autostrade intasate a quasi tutte le ore del giorno, di sprecare energia per mancanza di grandi linee di trasmissione, di avere una debole crescita della produttività, bassa scolarità e investimenti insufficienti.
La giustificazione è che in Europa, continente di cicale, ci vuole qualcuno che dia l’esempio e faccia da ancora. Senza ancoraggio il merito di credito europeo calerebbe bruscamente e tutti i tassi del continente sarebbero più alti. Era vero una volta, forse, ma in tempi di banche centrali che tengono i tassi bassi monetizzando il debito il discorso non vale più.
Fa effetto vedere Paul De Grauwe, un economista liberale fiammingo che ha speso la sua vita per l’Europa, sprofondare nel pessimismo e dirsi certo che l’euro non sopravvivrà a lungo. De Grauwe, un tempo mercatista, dopo la Grande Recessione ha aperto al ruolo dello stato come contrappeso anticiclico della volatile emotività dei privati. Il problema, dice, è che in Europa la politica ha funzionato in senso ciclico, aggravando i problemi, come nel 2011, invece di attenuarli.
La crisi europea di oggi è più grave di quella del 2011-2012. Lo spread, alto allora e basso oggi, è un indicatore di volontà politica, non di salute strutturale. E la salute si è deteriorata. La Germania, con la sua ricetta di svalutazione interna da parte delle cicale, poteva anche avere ragione tre anni fa. Di fronte però a pazienti recalcitranti (Italia e Francia) che si sono curati malissimo (molte tasse e niente tagli) o non si sono curati affatto bisogna avere un piano B. La Germania non ha un piano B e al massimo concede dilazioni fiscali e aggiramenti d’ostacolo monetari attraverso la Bce, cui peraltro mette continuamente i bastoni tra le ruote.
Certo, la posizione della Merkel è molto difficile. I liberali si sono estinti e al loro posto è spuntato come un fungo un partito anti euro come Alternative fur Deutschland. Non bastasse, nella Cdu si è formata una fronda di falchi, il Berliner Kreis, che accusa la Merkel di non avere colto il grido di dolore che si leva dal paese sulla perdita di sovranità e su costi causati dall’euro. Il manifesto del musical ispirato alla storia di Viv Nicholson. Dovremo quindi abituarci a un indurimento di toni da parte di Merkel, Schauble e Weidmann e sperare che si tratti solo di atteggiamenti di facciata seguiti all’ultimo momento da improvvise flessibilità.
Prigioniera dei suoi tabù, l’Europa finirà con il prodursi ancora una volta in programmi particolarmente contorti e bizantini. Incapace di chiamare con il suo nome il debito federale, che evoca fantasmi di mutualizzazioni, l’Eurozona stiracchierà al massimo i suoi fondi salvastati e salvabanche, farà loro emettere grandi quantità di debito che sarà poi comprato dalla Bce.
Facendo un po’ di fumo di copertura si spera di distrarre l’opinione pubblica. Sarà però difficile fare accettare questa forma mascherata di Quantitative easing e di debito federale agli agguerriti economisti e giuristi che guidano Alternative fur Deutschland. Sia chiaro, la spesa in infrastrutture pubbliche funziona bene solo quando è circoscritta nel tempo e negli obiettivi, come le Interstate americane volute da Eisenhower o l’Alta Velocità francese sotto Pompidou e Giscard. Se diventa ricorrente e dispersa abbassa progressivamente, invece di alzarla, la produttività di sistema. Di fronte al male estremo di un’Europa che non riesce a risollevarsi dopo sette anni di crisi si può tuttavia accettare qualsiasi salvagente venga buttato in acqua, pur nella consapevolezza che un salvagente può guadagnare tempo, ma non è una soluzione strutturale.
Per quanto siano gravi i problemi europei, l’Eurozona riuscirà a sopravvivere anche al prossimo giro. Ottobre si chiuderà con un Grand Bargain in versione bonsai. La Bce metterà sul tavolo euro debole, Abs e Tltro. La Germania chiuderà un occhio sugli sfondamenti fiscali e chiederà in cambio riforme strutturali. La Commissione metterà i 300 miliardi di investimenti promessi da Junker.
Tutto bene, sulla carta. Il problema è che, come al solito, le cicale prometteranno mari e monti con la ferma intenzione di mantenere gli impegni il meno possibile. La Germania, dal canto suo, farà finta di credere alle loro promesse. Il clima di incertezza non si dissolverà.
L’aspetto più notevole di questi nostri tempi è la divergenza tra la fiducia diffusa nei mercati finanziari e la sfiducia in chi dovrebbe investire in attività produttive. I governi, del resto, non contribuiscono molto a rassicurare le imprese. Nelle ore pari proclamano a gran voce la volontà di detassarle, in quelle dispari si scatenano contro le multinazionali, dichiarano aperta la caccia alla tax inversion e definiscono elusiva qualsiasi loro mossa.
Analisi estratta dalla newsletter di Kairos “Il rosso e il nero” (Pdf)