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Come affrontare la crisi politica ed energetica in Europa

La vicenda della regole del lavoro (ormai comunemente definita all’anglosassone jobs act perché non ci facciamo mancare niente!) ormai ha saturato tutte le pagine dei nostri mezzi di informazione. Noi abbiamo deciso che ce lo studiamo a fondo il maxi emendamento e poi diremo la nostra opinione. Intanto per oggi a voce alta ragioniamo su una vicenda che ci interessa direttamente ma della quale poco o niente la politica italiana si distingue anche se ospitiamo da anni moltissimi cittadini ucraini.

Infatti la definizione dei confini dell’Europa pone da sempre una sfida politica e culturale fondamentale per le élite e le società del “vecchio continente”. Più che in altre parti del mondo, il rapporto con l’altro da sé ha avuto un influsso decisivo sui processi attraverso i quali si è sviluppata l’identità del continente. Tale aspetto è tanto più evidente nel caso dei confini orientali dell’Europa: l’assenza di un vero limite naturale ha reso la frontiera con l’Asia estremamente fluida, facendo dell’area identificata come “Europa orientale” uno spazio di transizione che si è espanso e contratto a seconda delle circostanze storiche, e che è stato teatro di tensioni costanti fra i soggetti che di volta in volta hanno cercato di stabilirvi un determinato ordine politico. 

I drammatici eventi che stanno interessando l’Ucraina in questi ultimi mesi possono dunque essere visti come l’ennesima manifestazione di un rapporto antico e complesso. Da un lato, le istanze occidentali, oggi incarnate nell’Unione Europea, con il loro più o meno esplicito intento di “civilizzazione” dell’area secondo parametri efficacemente riassunti nell’idea di goodgovernace. Dall’altro, la prospettiva di un assetto alternativo, centrato sulla Russia e sulle aspirazioni di questa a fungere da snodo principale dei rapporti fra Asia continentale ed Europa. Peraltro, la questione “esistenziale” posta dal confine orientale dell’Europa non ha un valore meramente speculativo, ma ha prodotto ripercussioni pratiche evidenti.

L’eclatante insuccesso del Summit di Vilnius del novembre 2013, con l’improvviso rifiuto da parte dell’allora presidente Yanukovich di firmare l’Accordo di associazione con l’Ue, è in buona misura un effetto dell’ambiguità del messaggio trasmesso dai leader politici dell’Unione sul rapporto fra i loro partner orientali e l’Ue. L’incapacità di fornire una visione chiara sull’assetto futuro dell’area – e soprattutto sulle prospettive d’integrazione politica ed economica – è stato il risultato non solo di un approccio eccessivamente burocratico nella gestione della politica di vicinato (tuttora competenza esclusiva della Commissione), ma soprattutto della mancanza di un’idea condivisa da parte dei paesi membri sulla posizione e sulla gestione della frontiera orientale dell’Unione.

Oltre alla ritrovata assertività della politica estera di Mosca, dunque, alla base della crisi Ucraina vi è il sostanziale fallimento della strategia politico-istituzionale con cui l’Unione intendeva affrontare il problema dei propri confini geografici – e quindi dei limiti della sua capacità di assorbimento di nuovi paesi candidati. Delineata nel 2003 come uno strumento innovativo per la gestione di confini necessariamente problematici data la natura “post-sovranista” dell’UE, la politica europea di vicinato era stata appositamente ideata per favorire la formazione di un’area intermedia che attenuasse la separazione fra paesi membri e non membri (in applicazione dell’approccio “tutto a parte le istituzioni” della Commissione Prodi). Paradossalmente, essa ha finito col provocare una drastica diminuzione di quella stabilità e quel benessere economico offerti ai partner orientali come incentivo all’associazione. 

Oltre che indefiniti, i confini europei sono anche estremamente frammentati in occasione della crisi in Ucraina. L’acutizzarsi dello scontro politico e militare ha evidenziato non tanto la naturale divergenza fra le priorità dei paesi più interessati al vicinato orientale (come Polonia e Svezia) e quelle di altri membri (soprattutto i paesi più esposti agli effetti dell’instabilità della sponda sud del Mediteraneo), quanto l’incapacità da parte dei governi nazionali e delle istituzioni europee di garantire un costante ed efficace coordinamento di tali diverse posizioni. La missione del febbraio 2013 dei ministri degli Esteri francese, tedesco e polacco, che portò alla firma dell’accordo fra manifestanti di Euromaidan e Yanukovich (accordo poi vanificato dalla fuga di quest’ultimo) ha rappresentato un episodio di delega e coordinamento per molti aspetti positivo, ma che è rimasto un caso isolato.

I difetti della struttura istituzionale dell’UE (gli scarsi poteri di coordinamento dell’Alto rappresentante, l’orientamento tecnocratico della Commissione) e la mancanza di leadership (la mediazione di Van Rompuy, efficace nell’ambito delle politiche economiche, è stata sostanzialmente irrilevante per quanto riguarda l’azione esterna dell’UE) sono certamente aspetti importanti; essi tuttavia vanno considerati alla luce della incapacità dei Paesi membri di pensare alla politica estera – e quindi alla gestione di confini – dell’Unione in termini non puramente accessori rispetto agli interessi nazionali. Si potrebbe obiettare che tale frammentazione sia stata compensata dal ritrovato consenso all’interno della Nato di fronte alle minacce provenienti dalla Russia. In realtà, il fatto che tale ricompattamento delle posizioni dei Paesi membri si ottenga solo di fronte alla prospettiva di una minaccia “tradizionale” all’integrità territoriale dell’Europa mette ancor più in evidenza le difficoltà degli ultimi vent’anni di ripensare il ruolo dell’Alleanza Atlantica in senso “proattivo” – e non elimina le persistenti ambiguità sull’effettiva reazione della Nato di fronte a un’invasione in larga scala dell’Ucraina. 

Di fronte a questi sostanziali insuccessi strategici, i dati sugli effetti della crisi ucraina sui confini dell’Ue sono in una certa misura molto poco confortanti, poiché hanno comunque una loro portata potenziale. Infatti per quanto riguarda i flussi di persone e di merci, gli effetti delle tensioni interregionali all’interno del paese e nei suoi rapporti con la Russia sono già valutabili. Il rapporto sui rischi 2014 dell’Agenzia europea per l’immigrazione (Frontex) ha denunciato che il rallentamento della crescita economica della Federazione russa, dovuto all’instabilità in Ucraina e a possibili nuove sanzioni contro Mosca, potrebbe avere impatto negativo anche consistente sul mercato del lavoro europeo. Migranti in cerca di occupazione provenienti dall’area della Comunità degli Stati Indipendenti (soprattutto soggetti collegati alle diaspore presenti nell’UE e in Russia) potrebbero infatti essere indotti a ritornare nei loro paesi d’origine. Allo stesso tempo se la situazione rimane a lungo instabile il numero di cittadini ucraini in cerca di lavoro in arrivo nell’UE potrebbe aumentare. Molto più significativi sono gli effetti della liberalizzazione dei visti e, in prospettiva, di misure che facilitino ulteriormente la circolazione dei lavoratori grazie all’Accordo di associazione e per la creazione di una zona di libero scambio. Le autorità dell’Unione potrebbero inoltre dover trattare casi potenzialmente complicati di viaggiatori dotati di doppio passaporto se le autorità delle regioni separatiste dell’Ucraina cominciassero a emanare propri documenti.

Per quanto riguarda l’immigrazione clandestina, nonostante la linea di transito proveniente dall’Ucraina e dall’Europa orientale sia quella meno tradizionalmente interessata dal fenomeno inasprimenti della crisi possono portare a un aumento dei casi di contraffazione di visti e permanenze prolungate oltre i permessi. Sia i flussi regolari che quelli irregolari dall’Ucraina andranno probabilmente a gravare sulle destinazioni tradizionali (soprattutto Polonia, Germania e Svezia). Quanto alle richieste di asilo, nei primi cinque mesi del 2014 lo European Asylum Support Office ha registrato un aumento del 19% dei richiedenti e un aumento considerevole da provenienti dalla Siria.

Più in generale, le tensioni con la Russia stanno influendo sui flussi di visitatori provenienti dalla Federazione russa. E poi la questione più importante. E’ opportuno ricordare che il confine tra l’UE e l’Ucraina è attraversato anche dai gasdotti Brotherhood e Soyuz, che secondo le stime dell’International Energy Agency convogliano circa il 16% del gas proveniente dalla Russia consumato in Europa, con volumi che variano fra i 170 e i 340 milioni di metri cubi di gas al giorno. Le sanzioni applicate dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti alle compagnie energetiche russe non colpiscono direttamente l’importazione di idrocarburi, ma non è escluso che le limitazioni all’accesso ai mercati finanziari, l’interruzione della collaborazione con i partner europei e il divieto di effettuare scambio di tecnologie possano provocare reazioni da parte del governo russo, con effetti potenzialmente molto seri sulla sicurezza energetica europea.

Dunque ancora una volta l’UE è chiamata a riflettere sulla propria capacità di esercitare un ruolo efficace e positivo al di fuori dei suoi (intrinsecamente problematici) confini, facendo corrispondere azioni adeguate alle proprie aspirazioni. L’eredità del successo dell’allargamento del 2004-2007 potrebbe esaurirsi con tempi e modalità inaspettate, ed è nell’interesse di tutti gli attori coinvolti in questa crisi, in larga parte inattesa, che Bruxelles e le capitali europee capiscano come non dilapidare tale patrimonio.

Noi italiani, popolo anche Europeo, dobbiamo saper contare anche in questo contesto.

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