Flavio Felice – Fabio G. Angelini
Da “Europa”, 30 ottobre 2014
Una qualunque crisi indica un cambiamento traumatico e stressante, segnala un “punto critico” al quale si giunge per una miriade di ragioni e dal quale si può uscire, una volta conosciute le cause, individuando gli opportuni rimedi. Quella che stiamo vivendo in Italia è dunque qualcosa di più che una “crisi”.
Tale consapevolezza non aggiunge certo un euro nelle tasche degli italiani, però ha una valenza che va ben oltre il profilo etimologico. Se conoscere i caratteri della malattia è infatti il presupposto per procedere alla somministrazione della cura adeguata, pensiamo che il percorso più adatto non possa prescindere da una piena presa di coscienza del fatto che più che della coda di una violenta crisi finanziaria, si tratta di un triste e, allo stato attuale, inesorabile “declino”.
Quale impresa investirebbe i propri capitali in un paese in declino, con uno spaventoso tasso di corruzione, una malavita organizzata nota in tutto il mondo e ben articolata per regioni, dove del diritto non v’è certezza e dove non è di casa né la cultura del buon governo ( si considerino le «tre male bestie» di sturziana memoria: «Statalismo, partitocrazia e spreco del denaro pubblico»), né quella della libertà economica?
All’indomani della crisi finanziaria che ha interessato in primo luogo i paesi e le economie legate al mondo anglosassone, il governo statunitense ha intrapreso la più classica delle azioni anticicliche: ha immesso liquidità nel sistema e ha aiutato la macchina economica, finanziaria e produttiva statunitense a riprendersi e, semmai, a diventare persino più forte di quanto non fosse prima della crisi. Nel fare questo, ha però potuto contare su un sistema istituzionale solido e inclusivo, nonché su una cultura della libertà economica e del mercato ben radicata nella mentalità degli americani.
E se la sofferenza economica che da decenni insiste sul nostro paese, piuttosto che una crisi, fosse un declino, dapprima lento e via via sempre più rapido e travolgente? In tal caso, dovremmo interrogarci se le analisi macroeconomiche riescano a comprendere appieno i caratteri reali del problema economico italiano. Dovremmo, per di più, interrogarci sull’efficacia delle misure anticicliche, stile 80 euro e Tfr in busta paga.
Da quarant’anni si parla impropriamente di crisi e si continuano a curare i mali che affliggono l’economia italiana come se si trattasse di un malore improvviso e violento. Dalle nostre parti l’effetto sub-prime è stato decisamente modesto, eppure lì dove si è generato e ha prodotto disastri economici e finanziari inenarrabili, cioè soprattutto negli Usa, il sistema produttivo ha ripreso a funzionare a pieno regime. Il debito pubblico italiano, negli ultimi quarant’anni, è invece sempre cresciuto: nessuno ha rispettato l’impegno di incidere sulla macchina infernale che lo produce.
Cosicché, mentre la Germania e i paesi del Nord Europa corrono, o almeno procedono, noi siamo al palo e chiediamo alla signora Merkel di non essere spietata, di essere solidale e di non dimenticare il vincolo europeo e la necessità di preservare le condizioni di sviluppo di tutte le economie dell’Unione. Ebbene, la base del vincolo europeo consiste proprio nella gestione responsabile delle finanze pubbliche e nella possibilità di creare ricchezza attraverso l’investimento produttivo, ad alto valore aggiunto, che richiede capitale umano di primissimo livello e di formazione continua; un’idea di crescita che nel medio-lungo periodo ci consenta di parlare di autentico sviluppo.
Il vero dramma è che, prima ancora dell’impoverimento materiale (per quanto drammatico e desolante), siamo costretti a registrare un impoverimento culturale e morale che non ci consente di guardare in faccia la realtà e di reagire per invertire la rotta. Ma davvero, dopo gli 80 euro, qualcuno può credere che il Tfr in busta paga possa invertire o quanto meno contribuire ad invertire la rotta verso il baratro? Tutte queste misure anticicliche, di vago sapore keynesiano, per di più fuori stagione, non fanno altro che distoglierci dal problema strutturale del nostro sistema paese, aumentare la velocità del declino, creando sfiducia e frustrazione.
Per favorire la crescita, il driver su cui intervenire non può che essere la qualità delle istituzioni. Per attrarre gli investimenti servono infatti riforme semplici ma coraggiose, in grado di affrancare il paese dalla trappola delle “istituzioni estrattive” e dalla palude del circolo vizioso che queste producono, perpetuando l’ingiustizia sociale dovuta alla “legge ferrea delle oligarchie”.
Occorre una politica che individui puntualmente le priorità, leggi che dettino procedure amministrative certe, snelle e trasparenti, un’amministrazione responsabile, refrattaria alla corruzione e immune dallo spreco di denaro pubblico. Per seguire questa strada il governo Renzi può e deve guardare al mercato globale dei capitali, individuando i settori strategici su cui puntare per attrarre investimenti (a nostro avviso, green economy, infrastrutture, turismo, beni culturali, wellness economy) e, settore per settore, gli elementi essenziali per aumentare il grado di attrazione del nostro paese.
Sulla base di tale analisi, previa adozione di Testi unici, il governo dovrebbe avviare un coerente piano di reingegnerizzazione delle relative procedure amministrative, di razionalizzazione del riparto delle competenze e di creazione di team amministrativi altamente specializzati e focalizzati sul raggiungimento di elevate performance in termini di crescita e di innovazione del paese. Ci sembra questo il modo più serio e costruttivo per invertire la rotta e dare speranza a quei milioni di giovani e di lavoratori che, più di altri, sono vittime del declino.