Pubblichiamo grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori e dell’autore, l’articolo di Tino Oldani uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi
Criticare Mario Draghi è come votarsi al suicidio. I giornaloni lo portano in palmo di mano. È il presidente della Bce (Banca centrale europea), dunque un banchiere autorevole e potente. Forse il più potente al mondo, dopo la collega americana Janet Yellen, che guida la Federal Reserve Usa. Una sua parola è bastata per spegnere la speculazione contro l’euro. Ora, nonostante i mugugni contrari della Germania e benché il cavallo beva meno del previsto, sta regalando alle banche europee miliardi a palate perché li prestino alle imprese e alle famiglie, così da favorire la ripresa. E poi tiene alto l’onore dell’Italia, non ci fa vergognare di essere suoi connazionali. È tutto vero, sacrosanto. Ma ieri, nell’intervista che ha rilasciato a Europe 1, ha toccato un tema, la disoccupazione, che, in passato, era del tutto estraneo alle sue dichiarazioni, e benché abbia usato anche questa volta le parole più appropriate, è difficile non scorgervi alcune contraddizioni tra le parole e il suo operato, perfino tra la sua formazione culturale e la successiva carriera.
Qual è il principale nemico di tutta l’Europa? gli ha chiesto l’intervistatore. «La disoccupazione», ha risposto Draghi. «Tuttavia ciò è collegato a un sentimento più ampio: la mancanza di fiducia nel futuro, ma anche tra gli Stati membri. Noi dobbiamo combatterla». Analisi perfetta. In Europa ci sono più di 25 milioni disoccupati, e le imprese e le famiglie hanno perso la fiducia, massacrate dalle politiche di austerità che hanno portato gli Stati europei a dividersi: da un lato, quelli che hanno fatto del Fiscal Compact un nuovo idolo; dall’altro quelli che ne dubitano. Per ripristinare la fiducia, Draghi dice che «ora tutti devono combattere contro la disoccupazione». Tutti? Sì, proprio tutti: gli investitori privati e quelli pubblici, ma anche la Bce. Proprio così, anche la Bce. E questa è una grandissima novità, un vero» strappo» istituzionale, perché il mandato della Bce, per statuto, si limita al controllo dell’inflazione, mentre la crescita e l’occupazione sono compiti riservati ai singoli governi.
Che si tratti di una limitazione demenziale, imposta dalla Germania nei trattati europei, l’abbiamo scritto più volte. La Federal Reserve Usa, proprio perché il suo mandato include espressamente anche la crescita e l’occupazione, oltre alla politica monetaria, ha potuto muoversi con efficacia e trascinare l’economia Usa fuori dalla crisi. Impresa che la Bce è lungi dal poter fare, se prima non cambia qualcosa nei rapporti istituzionali. Per questo lo «strappo» di Draghi va salutato con favore, anche se è proprio qui che si annidano alcune contraddizioni.
La prima è culturale. Draghi si è laureato nel 1970 a Roma con Federico Caffè, che per anni è stato l’economista maggiormente convinto della giustezza delle teorie di John Maynard Keynes sull’importanza della spesa pubblica per sostenere lo sviluppo e l’occupazione. Tra i suoi allievi, Caffè (prima che scomparisse misteriosamente nel nulla) ha avuto giovani talenti che hanno fatto carriera, compreso l’attuale governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. Tutti keynesiani, all’esordio. La tesi di laurea di Draghi si intitolava «Integrazione economica e variazione dei tassi di cambio», e – ironia del destino – era molto critica verso il progetto di una moneta unica europea. Poi Draghi ha insegnato in prestigiose Università italiane e Usa, ha lavorato a fianco di Guido Carli e di Carlo Azeglio Ciampi, è stato tra i massimi dirigenti della banca d’affari Goldman Sachs, quindi governatore della Banca d’Italia e, infine, presidente della Bce: il custode della moneta unica, e quindi dell’austerità.
Con il passare degli anni, la grisaglia del banchiere sembra avere cancellato le sue origini keynesiane. Anzi, tra i keynesiani ortodossi, la Bce è vista come un pericoloso avversario culturale, il braccio armato delle teorie neoclassiche sul primato del mercato, teorie che hanno portato al Fiscal Compact, che con il pareggio di bilancio obbligatorio ha messo Keynes fuori legge. In un saggio recente di Warren Mosler e Paola Ghini, che accompagna un’ampia intervista radiofonica fatta a Keynes nel 1933 («L’assurdità dei sacrifici, elogio della spesa pubblica»; Mabed), si sostiene che la Bce non può chiamarsi fuori dalle politiche di austerità che hanno provocato la disoccupazione.
«La Bce poteva essere organizzata in modo da creare anche denaro per la spesa pubblica degli Stati» scrive Piga. «Invece si sta muovendo in direzione opposta, avendo già creato accordi con gli istituti di prestito privatistici Mes e Fmi. Tutto molto diverso dal contesto monetario prescritto da Keynes». Risultato: «Le politiche di austerità che obbligano al pareggio di bilancio stanno portando alla povertà le famiglie, alla disoccupazione i lavoratori dipendenti, e al fallimento le imprese medio-piccole. Le prime vittime dell’austerità sono i Paesi del Sud Europa. Ma, a lungo termine, anche i lavoratori e le famiglie degli altri Paesi che applicano il pareggio di bilancio subiranno una sorte analoga». Contraddizioni personali a parte, riuscirà lo «strappo» di Draghi a rovesciare questa prospettiva e ripristinare la fiducia? In gioco c’è tutto: il futuro dell’Europa unita e dell’euro, oppure il fallimento, la dissoluzione.