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Ecco perché le fibrillazioni per gli stress test della Bce sono eccessive

Pubblichiamo grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori e dell’autore, l’analisi di Tino Oldani uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

Tra le rare dichiarazioni pubbliche di madame Danièle Nouy, numero uno della Vigilanza Bce sulle banche, ve ne sono un paio che meritano di essere ricordate. La prima: «Le banche dell’eurozona saranno sottoposte agli stress test ogni anno». La seconda: «Dobbiamo essere sorveglianti duri. Questa è la lezione della crisi». Con queste premesse, le banche europee che non sono in regola con i parametri di solidità patrimoniale (Basilea 2 e Basilea 3), hanno ben poche speranze di farla franca. Ma se domenica finiranno nell’elenco degli istituti bocciati, elenco che madame Nouy renderà di dominio pubblico con una conferenza stampa molto attesa, non per questo dovranno portare i libri in tribunale il giorno dopo. Anzi, gli allarmismi di questi giorni su ipotetiche bocciature, appaiono eccessivi e fuori luogo.

Le regole concordate dai governi europei appaiono improntate a grande prudenza: le banche che dovessero risultare capitalizzate in modo non sufficiente, avranno 15 giorni di tempo per presentare alla Vigilanza della Bce un piano di ricapitalizzazione. Dopo di che avranno a disposizione altri sei mesi di tempo (nove mesi per i casi più gravi) per porre rimedio alle carenze di capitalizzazione individuate dagli stress test. Trascorso questo periodo di sei o nove mesi, la palla passerà nelle mani di madame Nouy, che insieme a suoi analisti del Single Supervisory Mechanism (questo il nome ufficiale della Vigilanza della Bce) deciderà se porre la banca in liquidazione, oppure intervenire con una ristrutturazione che dovrà seguire criteri completamente diversi dal passato. Il primo di questi criteri, quello fondamentale, è che non ci sarà più alcun salvataggio con l’impiego di denaro pubblico. I costi eventuali dovranno invece gravare sugli azionisti privati della banca, riducendo al minimo la possibilità di intervenire con capitali statali, presi dalle tasse come è stato finora.

In pratica, le banche che non dovessero superare gli stress test, avranno al massimo nove mesi di tempo per decidere se salvarsi o fallire. Nel primo caso, gli azionisti dovranno scegliere se sborsare nuovi capitali di tasca propria, oppure fondersi con un’altra banca mediante una ristrutturazione che assicuri la nascita di un gruppo creditizio più grande e più solido, in grado di reggere la concorrenza sul mercato europeo. È evidente che per evitare shock finanziari sui mercati, la Vigilanza della Bce cercherà di agevolare, ove possibile, questa seconda soluzione. Il che ridurrà probabilmente a pochi casi estremi la messa in liquidazione. È questo il vero spartiacque rispetto alla crisi finanziaria del 2008, quando, a eccezione della Lehman Brothers, le banche furono salvate – prima negli Stati Uniti e poi in Europa – soltanto grazie all’intervento di massicce iniezioni di denaro pubblico.

Quei salvataggi ebbero aspetti molto discutibili. Le banche, soprattutto quelle too big to fail (troppo grandi per fallire), si erano indebitate oltre misura a causa di speculazioni folli sui derivati. Per evitare l’effetto domino, dove il fallimento di una grande banca avrebbe provocato il crollo dell’intero sistema finanziario, le autorità politiche e monetaria sia degli Usa che dell’Unione europea pomparono alcuni trilioni di dollari e di euro nelle casse esauste dei maggiori istituti di credito. Soldi che furono sottratti all’economia reale, che per questo si è bloccata per anni, salvo riprendersi negli Stati Uniti grazie alla politica espansiva della Fed, mentre in Europa la Bce di Mario Draghi non ha potuto fare altrettanto, poiché l’architettura monetaria dell’euro, profondamente sbagliata, e l’ossessione tedesca per la politica di austerità glielo hanno impedito.

Negli Usa, grazie alla politica della Fed, che per statuto deve svolgere una politica monetaria in funzione dello sviluppo e dell’occupazione, oltre che dell’inflazione, l’economia è ripartita e la fiducia è tornata sul mercato finanziario. Risultati ben diversi si sono registrati invece in Europa, dove la Bce è obbligata da trattati demenziali (imposti dalla Germania e dai Paesi del Nord) a curarsi solo dell’inflazione, ma non dello sviluppo e dell’occupazione, ritenuti di competenza dei singoli governi. Di conseguenza, almeno finora, non vi è stata nessuna ripresa dell’economia (caduta anzi in deflazione e depressione), come non vi è stato alcun ritorno di fiducia sui mercati, soprattutto su quello del credito, dove le banche non si fidano l’una dell’altra, e il credit crunch regna sovrano.

È qui che si innesta, in positivo, il ruolo strategico di madame Nouy: ripristinare attraverso gli stress test annuali la fiducia dei mercati in un sistema del credito più solido e più competitivo, eliminando le mele marce, senza più ricorrere a denaro pubblico. La scommessa è enorme. Se vinta, di certo non basterà per colmare le lacune operative della Bce imposte dai trattati, ma sarà un passo avanti importante. Se poi tra le mele marce si dovessero scoprire anche alcune banche tedesche, ecco un argomento politico serio per chi, come Matteo Renzi, vuole convincere la signora Angela Merkel che in Europa si deve cambiare verso, con più crescita e meno austerità.


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