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Ecco tutte le magagne del modello economico tedesco

L’Eurozona non è più la gallina dalle uova d’oro dell’export tedesco. Ma per l’industria tedesca non è uno smacco, è l’austerità che ha svuotato le tasche ai cittadini europei. Neppure hanno di che festeggiare le imprese europee, che continuano ad esportare in Germania più o meno come prima. Non sono però gli ultimi dati congiunturali ad abbattere il mito di una Germania che vende a tutta forza sui nostri mercati accumulando attivi: ad agosto c’è stato solo il capovolgimento del fronte, con l’Eurozona in attivo per 1,3 miliardi di euro, un dato che riflette un andamento ormai consolidato nei primi otto mesi dell’anno. In otto mesi la Germania si è fermata ad appena 0,8 miliardi di euro su un interscambio con l’Eurozona di oltre 545 miliardi di euro.

Il saldo commerciale complessivo della Germania ad agosto è stato di 137 miliardi di euro: 35,3 miliardi nei confronti dei Paesi europei non aderenti all’euro e 100,8 miliardi verso i Paesi extra-UE.

La recessione in Europa ha determinato la eliminazione del forte squilibrio strutturale nei confronti della Germania: l’attivo tedesco verso l’Eurozona, che nel 2007 era stato pari a 126 miliardi di euro (5,2% del Pil), nel 2013 si era già ridotto a 48 miliardi (1,9% del Pil). Quest’anno sarà verosimilmente pari a zero.

Il ribilanciamento è avvenuto attraverso una riduzione dell’export tedesco verso gli altri Paesi dell’Eurozona e non attraverso un aumento dell’import da questi Paesi. La Germania, scegliendo di non pareggiare i conti con il resto dell’Eurozona attraverso un aumento delle proprie importazioni da questa area, ha deciso di dis-integrarsi dal resto dell’Unione europea: mentre nel 2007 il 65% del totale dell’export tedesco aveva una destinazione europea, nel 2013 questo rapporto è sceso al 57%, una percentuale pari a quella dell’import. Non è cambiato invece il modello export-led della Germania, testimoniato da un attivo della bilancia dei pagamenti tedesca che non mostra flessioni: sono cambiati solo i Paesi di destinazione.

LA BILANCIA COMMERCIALE

La Germania ha scelto di ribilanciare i suoi conti commerciali con l’Eurozona, creando la recessione in questa area, e di sostituire l’attivo strutturale verso l’Eurozona con quello verso altri Paesi. Al di là del giudizio morale e politico che può essere espresso, per via dei milioni di disoccupati che l’austerità imposta con il Fiscal Compact ha determinato e continua a determinare, e che potevano essere evitati se solo la Germania avesse accettato di accelerare il suo import dell’Europa, il punto cruciale è rappresentato dal rallentamento dell’economia tedesca nonostante il saldo della sua bilancia dei pagamenti rimanga a livelli stratosferici. A fronte di un attivo pari ancora quest’anno al +6,2% del Pil, quest’ultimo cresce di appena l’1,4%. In pratica, le vendite all’estero servono appena a sostituire la domanda interna. Il confronto con l’economia cinese rende più chiaro l’anomalia tedesca, visto che le relazioni sono invertite: nel 2014, infatti, il Pil della Cina crescerà del 7,4% mentre l’attivo sull’estero arriverà appena all’1,5% del Pil. In Cina, finalmente, sono gli investimenti e la domanda interna che trainano la crescita.

IL MODELLO SOCIO-POLITICO

L’economia tedesca è invece pietrificata, avendo adottato un modello socio-politico di sottooccupazione strutturale: a fine 2013, sul totale degli impiegati, uomini e donne nell’età compresa tra 15 e 64 anni, il 26% era occupato a tempo parziale, mentre questa percentuale è stata appena dell’8,3% in Grecia, del 16,2% in Spagna, del 17,9% in Italia e del 18,3% in Francia. Considerando solo le donne, in Germania la percentuale è del 45,1%, a fronte del 12,5% in Grecia, del 26,5% in Spagna, del 30,8% in Francia e del 32,1% in Italia.

I REDDITI

Anche la percentuale del reddito destinato ai salari è scesa, in Germania: era del 56% nel 1991, prima della caduta del Muro di Berlino, mentre nel 2008 (ultimo anno comparabile prima della crisi che ha alterato tutti i rapporti) è stata del 49,7%. La Francia nel frattempo ha aumentato il rapporto dal 51,9% al 52,1%. L’Italia, che è stata sempre molto più indietro, è passata dal 39,2% del 2000 al 41,8% del 2008.

GLI INVESTIMENTI

Infine, anche gli investimenti fissi lordi sono andati giù nel tempo: rispetto al picco degli anni Novanta, quelli della ricostruzione dei Lander orientali in cui erano pari ad oltre il 23% del Pil, sono scesi al 17,6% nel 2013. Una inezia, una spilorceria per una economia che nel solo periodo della crisi, tra il 2009 ed il 2013, ha accumulato attivi della bilancia dei pagamenti per 1.081 miliardi di dollari. L’Italia, nonostante tutto, ha fatto del suo meglio: nel 2007 aveva destinato ad investimenti fissi lordi una cifra pari al 21,5% del Pil, mentre la Germania stagnava al 18,4%. Nonostante la crisi profonda, nel 2014 l’Italia destinerà ad investimenti il 18,2% del Pil e la Francia il 19,6%: la Germania appena il 17,6%.

IL LAVORO SECONDO BERLINO

Le riforme del lavoro adottate in Germania sono il frutto di un pensiero debole: sfruttano il vantaggio competitivo accumulato in passato, sia in termini di capitale fisso che di proporzione delle remunerazioni salariali sul reddito nazionale, per accumulare profitti sull’estero. Anche  i tedeschi che lavorano più di 35 ore settimanali sono diminuiti, passando dal 59% del 2000 al 51% del 2013: l’attivo della bilancia commerciale si è fondato sulla riduzione dei salari e dei lavoratori a tempo pieno.

DOSSIER COMPETITIVITA’

Così aumenta la competitività: part-time, minijobs, riduzione della quota del reddito destinata ai salari, pochi investimenti all’interno. Si preferisce farli oltre frontiera, anche negli Usa, dove rendono di più: ad inizio di quest’anno, gli attivi tedeschi all’estero erano pari a 6.986 miliardi di euro (242% del Pil).

MODELLO DA IMITARE?

Non è affatto un modello da imitare questa Germania. Assicura la massima occupazione, questo sì, una equità distributiva che riecheggia lo slogan della sinistra extraparlamentare italiana degli anni settanta, che invocava di “lavorare meno, lavorare tutti”. Ma persegue un arricchimento sterile, cela il dramma di una Germania che già si autodistrugge: la popolazione tende a diminuire drammaticamente. Dagli 83 milioni attuali, nel 2060 si arriverà a 65-70: una strage, un numero di morti che supera del doppio quelli causati dalla Seconda guerra mondiale. E’ una società senza figli, senza gioia, fatta solo di lavoro e di sacrifici, poco più di una caserma. Non servono nuove fabbriche, né altre case, in Germania: sarebbero solo altri sacrifici inutili, come la ricchezza che continua ad accumulare.

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