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Tutti i benefici della contrattazione aziendale

Di seguito il testo della sesta puntata di Oikonomia, rubrica settimanale di Marco Valerio Lo Prete (giornalista del Foglio) ospitata da Radio Radicale. Ogni lunedì mattina, dopo la rassegna stampa, potrete ascoltare una nuova puntata. (Qui tutti gli audio (http://www.radioradicale.it/rubrica/1113) di Oikonomia e i testi (http://www.ilfoglio.it/lista/b/48/contrarian.htm) finora pubblicati).

Nel gennaio 1914, negli Stati Uniti, Henry Ford applicò ai dipendenti della sua fabbrica di automobili la riduzione del turno di lavoro giornaliero da 9 a 8 ore e l’aumento del salario giornaliero da 3 a 5 dollari. “Ci siamo risolti a pagare salari più alti per creare fondamenta solide su cui costruire l’azienda – spiegò il fondatore dell’omonima casa automobilistica – Cinque dollari per una giornata lavorativa di otto ore è stata una delle più efficaci strategie di riduzione dei costi che abbiamo mai messo in atto”. Quindi alti salari per ottenere bassi costi. Storici e analisti, studiando a qualche anno di distanza la disciplina, la lealtà ed efficienza dei lavoratori della Casa di Detroit, dimostrarono che era andata proprio così. Tanto che secondo l’economista statunitense Gregory Mankiw, Ford “aveva scoperto la teoria del salario di efficienza e sfruttava gli alti salari per aumentare la produttività del lavoro”.

Ancora oggi il legame tra retribuzione e produttività è centrale per rilanciare la competitività dell’Italia. Durante il dibattito sulla riforma del mercato del lavoro, si è sostenuto che proprio per legare in maniera più stretta queste due grandezze – retribuzione e produttività–, e rilanciare anche attraverso questa strada la competitività del paese, si debba favorire la contrattazione aziendale. Sul modello tedesco, per esempio, e vediamo perché.

L’economia di Berlino oggi sta rallentando, complice la ripresa più stentata del previsto dei paesi dell’Eurozona che la circondano. Ciò non toglie che finora la Germania abbia superato quasi indenne la crisi globale e poi dell’Eurozona: ha perso 5,1 punti di pil nel 2009, poi però ne ha guadagnati 4,2 nel 2010, 3 nel 2011, 0,7 nel 2012 e 0,4 nel 2013. Il tasso di disoccupazione è al 5,3 per cento, contro il 12,6 per cento. Il surplus commerciale del paese – cioè la differenza tra esportazioni e importazioni – è da anni sopra il 6 per cento del pil, oltre i livelli raggiunti da un’altra potenza esportatrice come la Cina. Merito di un’economia che per varie ragioni, incluse le caratteristiche della sua forza lavoro, è altamente competitiva.

Uno degli indicatori usati per misurare la competitività di costo di un paese è il Costo del lavoro per unità di prodotto, o Clup. Secondo i dati Eurostat, dal 1995 al 2010 il costo del lavoro per produrre ogni unità di prodotto in Germania è aumentato dell’1,7%. Lo stesso costo, nello stesso periodo, in Italia è salito invece del 38%. E’ evidente dunque quanto terreno hanno guadagnato le imprese tedesche rispetto alle concorrenti italiane. Va precisato che il Clup, rapporto tra costo del lavoro e produttività, tiene conto sia del compenso orario per addetto sia del valore aggiunto orario per addetto. Il problema è che negli anni in Italia sono sicuramente aumentate le retribuzioni nominali – magari anche in ragione di pressione fiscale e contributi sociali asfissianti – mentre invece la Germania riduceva pure il cuneo fiscale. Non solo: negli stessi anni, la produttività, cioè il secondo fattore utile a calcolare il Clup, è rimasta stagnante. Per “produttività” s’intende la quantità di prodotto ottenuta con l’impiego di una unità di lavoro. E sempre secondo Eurostat, la produttività unitaria del lavoro dal 1995 al 2010 è aumentata del 5,6% in Italia e del 25,9% in Germania. Nel nostro paese, dunque, a fronte di un aumento dei salari nominali, la produttività è rimasta stagnante. In Germania i salari sono aumentati meno che da noi, la produttività invece è cresciuta di più.

Assieme alle riforme del welfare e del lavoro del cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder nei primi anni 2000, si è rivelata decisiva la capacità del sistema produttivo tedesco di adattarsi ai cambiamenti dell’ambiente circostante, senza attendere l’intervento del legislatore ma partendo dalla contrattazione a livello aziendale. Il processo iniziò subito dopo la riunificazione del paese. Infatti già nel 1990 la situazione economica tedesca si presentava difficile per il fatto di dover assorbire una metà della nazione in condizioni decisamente arretrate, cioè la Germania dell’est. Poi ci fu un impatto anticipato della globalizzazione, perché si offrì giù allora la possibilità di delocalizzare nei vicini paesi dell’est, dove stavano crollando i regimi comunisti. Non pochi imprenditori, di fronte alle difficoltà economiche, prima pensarono di chiudere o spostare all’estero le proprie aziende. Poi invece molti si avvalsero della possibilità prevista dalla Costituzione di contrattare al livello territoriale o di singola impresa, e trovarono nei sindacati o nei consigli di fabbrica degli interlocutori pragmatici.

In generale dagli anni 90 si cominciò a ricorrere ciclicamente alle cosiddette “Öffnungsklauseln”, o clausole di apertura, che consentono di modificare gli accordi che erano stati decisi al centro anche su aspetti importanti come salario, orario, turnazione e in generale organizzazione del lavoro in fabbrica. Famosa fu la scelta di VolksWagen, nel 2001, chiamata “5.000 per 5.000”: allora il sindacato dei lavoratori metalmeccanici IG Metall disse “sì” all’assunzione di 5.000 lavoratori a salari ridotti rispetto agli standard di quel momento in cambio della produzione di un nuovo modello di auto negli impianti di Wolfsburg. Dal 1995 al 2008 la percentuale di lavoratori interessati da un contratto nazionale di settore è scesa dal 75 al 56 per cento del totale. Mentre i disoccupati sono passati dai 5 milioni del 2005 ai 2,8 milioni di oggi.

Percorrere in Italia la strada della contrattazione aziendale, soprattutto nel breve periodo, potrebbe significare un ridimensionamento delle aspettative future della maggioranza dei lavoratori. Ma in realtà imprenditoriali più profittevoli si potrà derogare al contratto nazionale per migliorare le condizioni attuali, per esempio sul welfare aziendale come già sta accadendo e come vedremo meglio in futuro. Quello che l’Italia non si può più permettere è di avere retribuzioni decise in sede di concertazione centrale, basate su automatismi generalizzati, che restino slegate dall’andamento della produttività aziendale.


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