Nel discorso al clero di Roma del 14 febbraio 2013, Benedetto XVI parlò di un “concilio virtuale”, cioè del concilio dei mezzi di comunicazione, addirittura più forte di quello reale, che “ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi.”. A distanza di mezzo secolo la musica, a quanto pare, non è cambiata. Anche ora infatti è all’opera un “sinodo virtuale” con lo stesso obiettivo di allora: condizionare la discussione, le scelte e la ricezione dei lavori sinodali dentro e fuori la chiesa. Anzi, si può dire che il “sinodo virtuale” di oggi altro non è se non la prosecuzione con altri mezzi del “concilio virtuale” di ieri di cui parlava Ratzinger. Il refrain è lo stesso: i tempi sono cambiati, la chiesa deve adeguarsi ai tempi andando incontro all’uomo contemporaneo. Il che per il teologo (post) cattolico Vito Mancuso e quanti si riconoscono nella sua posizione significa una cosa molto semplice: “I padri sinodali sono chiamati a prendere atto del fatto che la morale ufficiale della Chiesa cattolica in ambito sessuale e familiare è ormai una “caricatura”…“; e che quindi, “chi oggi sostiene ancora il no ai sacramenti per divorziati risposati, il no alla contraccezione, il no ai rapporti prematrimoniali, il no alla benedizione delle coppie gay, è fuori dal mondo nel senso che non ne capisce l’evoluzione“. E lo stesso dicasi ovviamente anche per il no all’abolizione del celibato o quanto meno alla scelta pro o contro il celibato, al sacerdozio femminile e via dicendo. Il discorso è chiaro: ciò che conta è seguire l’evoluzione, il sapersi adattare alla scena cangiante del mondo, saper intercettare, assecondandole e sospendo ogni giudizio, le dinamiche di cambiamento della società. Di fatto, una chiesa ridotta a bioparco. Chiaro che in questa visione a dir poco storicistica della chiesa e del suo esistere nel mondo, concetti come verità, bene e male, peccato e redenzione non trovano più ragion d’essere perché tutto è fluido e relativo. Il tutto, manco a dirlo, per riprendere le fila del vero spirito del Vaticano II, le cui attese e speranze sono state tradite dai pontificati di Paolo VI, S. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. E così torniamo al vero nocciolo della questione: il Vaticano II e la sua ricezione nella chiesa. A scanso di equivoci diciamo subito una cosa: entrambe le letture prevalenti, quella genericamente tradizionalista che lo vede come uno strappo rispetto alla “vera” chiesa – con ciò intendendo quella tridentina – e quella progressista che – sulla scia della Scuola di Bologna – lo interpreta invece all’insegna della discontinuità, qui intesa positivamente come apertura alla modernità, peccano di miopia. Delle due, quella che storicamente ha avuto la meglio è stata la seconda, la cosiddetta ermeneutica della discontinuità, complice anche il succitato “concilio virtuale” che ha supportato, da un lato, ed alimentato esso stesso, dall’altro, una ben precisa ricezione del Vaticano II, dentro e fuori la chiesa. Ora che nel post Concilio ci siano stati sbandamenti, deviazioni ed eccessi, è facilmente dimostrabile; ma ciò è accaduto perché sulla base di una ben precisa interpretazione del Concilio più d’uno, e in diversi ambiti (liturgico, teologico, ecclesiologico, pastorale, ecc.) si è sentito autorizzato a vivere e pensare la chiesa come se il Vaticano II fosse l’anno zero, la fine del vecchio e l’inizio del nuovo, un nuovo in nome del quale si potevano (e forse si dovevano) mutuare acriticamente categorie, adottare forme e contenuti della modernità per stare finalmente al passo con i tempi. I risultati li conosciamo bene: crisi delle vocazioni e seminari svuotati, crisi del sacerdozio e conseguente abbandono dello stato clericale da parte di tantissimi preti, alcuni dei quali – per stare vicino al popolo – smisero la talare per andare in fabbrica (sul punto, sarebbe interessante sapere quanti, dopo aver lasciato il sacerdozio, sono rimasti a fare l’operaio..), bizzarrie e amenità liturgiche di vario genere (messe beat ecc.), smottamenti in campo dottrinale (si pensi alle varie teologie della liberazione e, più in generale, al tentativo, teorico e pratico, di tenere insieme Cristo e Marx, che in ambito politico è sfociato nel cattocomunismo) e morale – esemplare in tal senso la battaglia contro l’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI, ancora qualche giorno fa bollata da Mancuso come “famigerata” – il cui pontificato, forse perché schiacciato tra quello di due giganti come S.Giovanni XXIII e S. Giovanni Paolo II, viene solitamente ed ingiustamente sottovalutato, e speriamo che l’imminente beatificazione serva almeno un po’ a rendergli giustizia; e ancora, crisi del principio di autorità (le cui conseguenze, ad esempio nel campo educativo con l’esperienza di don Milani, sono sotto gli occhi di tutti). L’elenco potrebbe continuare a lungo. Fatti e misfatti che hanno, per contro, confortato i critici da destra del Concilio, che hanno avuto buon gioco nel prendersela direttamente con il Vaticano II, visto come la causa remota di tutti i mali. Con un’analisi siffatta, la cura era (ed è) presto detta: riportare le lancette dell’orologio alla chiesa pre-conciliare. Senza se e senza ma. Entrambe le prospettive, dicevamo, peccano di miopia. La chiesa di oggi non ha bisogno né di un Trento II né, tanto meno, di un Vaticano III; ciò di cui ha bisogno è di tornare al Vaticano II, quello vero. Che resta un evento straordinario dove lo Spirito realmente ha parlato alla Chiesa suscitando – nonostante i limiti e le debolezze dei sui membri – un’azione di rinnovamento nella, non contro né oltre la tradizione – come ha sottolineato Benedetto XVI nell’ormai celebre discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, rileggendo il Concilio alla luce dell’ermeneutica della riforma – che in parte ha recepito le istanze del rinnovamento biblico, liturgico e teologico degli anni precedenti, in parte ne ha suscitate di nuove, il tutto cristallizzandosi nei documenti finali dell’assise conciliare, vere perle di sapienza, ai quali bisogna tornare, con umiltà e discernimento. E senza dimenticare che proprio in quegli anni lo stesso Spirito che soffiava nella basilica di S. Pietro era all’opera per suscitare nuove comunità e movimenti ecclesiali come CL, i Focolarini, il Cammino Neocatecumenale, il Rinnovamento nello Spirito, ecc., dove molte delle istanze del Concilio hanno trovato attuazione, e dove decine di migliaia di uomini e donne hanno potuto riscoprire la fede, e altrettanti hanno potuto incontrare Cristo per la prima volta sotto la vigile guida dei pontefici e dei pastori. E allora se è vero, come è vero, che la crisi attuale è primariamente crisi di fede, la cura non è fare marcia indietro per tornare alla messa tridentina (in latino, che la gente non capisce), o al catechismo di S. Pio X (intellettualistico e nozionistico, per nulla biblico ed esistenziale), o alla pastorale sacramentale (che presuppone una fede che spesso non c’è più) e a tutto l’armamentario delle pratiche di pietà (anche qui, ci vuole fede) e ad una morale casuistica lontana anni luce; e neanche vagheggiare balzi in avanti o addirittura un Vaticano III, ma restare al Vaticano II, accompagnandone l’attuazione con un rinnovato slancio missionario, in linea con la nuova evangelizzazione lanciata a suo tempo da S. Giovanni Paolo II, e della quale oggi più che mai se ne sente la necessità. La chiesa non farebbe un buon servizio agli uomini e alle donne del nostro tempo abbassando l’asticella a misura dei loro desideri ma, al contrario, aiutando le persone a superare l’asticella, rievangelizzando la società.
E dopo il Concilio ecco il Sinodo “virtuale”. L’obiettivo non cambia: un Vangelo a misura d’uomo
Di