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Il Jobs Act acuirà la crisi economica

Il Jobs Act è sempre più vicino. Dopo molti mesi di accese discussioni nelle sedi istituzionali e nelle tribune politiche il Senato ha votato il sì al decreto e la prossima settimana, salvo difficili imprevisti, arriverà il parere favorevole anche della Camera.

La ratio centrale sui cui si fonda la riforma Poletti, come ha sottolineato Marcello De Cecco [1], è quella di allontanarsi dalla prospettiva di un mercato del lavoro unico in favore di una estrema diversificazione delle situazioni. In sostanza si lascerà più libertà alla contrattazione microeconomica ed individuale abbandonando la prospettiva macroeconomica del mondo del lavoro: non più una regolamentazione unica tra istituzioni, lavoratori e privati, ma una “serie di congerie di interventi settoriali”. Il cambiamento principale rispetto alla situazione attuale, seppur poco innovativo dal punto di vista della scienza economica, riguarda infatti l’introduzione di un’unica specie contrattuale da adattare “con tutele crescenti” per tutti i neoassunti. In linea di principio siamo molto d’accordo con l’idea di voler semplificare il groviglio di figure contrattuali lavorative ad oggi presenti, così come siamo estremamente favorevoli a trovare una soluzione alla disparità tra chi ha il lavoro (troppo protetto secondo i liberisti renziani) e chi non ce l’ha, ma il Jobs Act appiana tutte  le differenze verso il basso.

Le “tutele crescenti” prevedono infatti l’introduzione di una serie di garanzie di mantenimento del posto di lavoro tanto più forti quanto maggiore sarà l’anzianità di servizio. Come ben sappiamo il Jobs Act non cita l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, ma il governo ha promesso di regolamentare la reintroduzione sul posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo con i dovuti decreti di attuazione. A ciò si accompagna una generalizzata semplificazione del processo di licenziamento per motivi economici che prescindano da una causa legale precisa. In estrema sintesi il mercato del lavoro italiano assomiglierà molto più a quello americano, dove l’occupazione aumenta o diminuisce in base all’andamento del ciclo economico: nelle fasi di crescita si lavora, in quelle di recessione si va a casa. Pertanto appare in modo evidente che la riforma del lavoro, più che estendere i diritti sociali su base universale, persevera nella ormai vecchia prospettiva che vede nella maggiore concorrenza un indubbio stimolo per l’economia.

Riportiamo questi due brevi passi per spiegare meglio quanto è stato appena detto.

“Le differenze nei regimi di protezione dell’impiego appaiono largamente incorrelate alle differenze tra i tassi di disoccupazione dei vari paesi” – O. Blanchard, “European unemployment: the evolution of facts and ideas”, Economic policy 2006 –

“La teoria classica ha generalmente fondato il supposto carattere autoriequilibratore del sistema economico sull’ipotesi di fluidità dei salari monetari; e, qualora invece i salari monetari siano rigidi, ad attribuire a questa rigidità la responsabilità dello squilibrio” – J.M. Keynes, “Teoria Generale dell’Interesse, Occupazione e Moneta”, 1936 –

Per prima cosa osserviamo i nomi e le date dei due passi. Il primo è un saggio scientifico del 2006 scritto da O. Blanchardchief economist del Fondo Monetario Internazionale, mentre il secondo è preso dalla celebre Teoria Generale diKeynes del 1936. Blanchard, dopo anni di sostenimento e di promozione di politiche liberiste sul mercato del lavoro, è dovuto arrivare ad ammettere che non c’è una correlazione univoca e diretta tra maggiore flessibilità e diminuzione della disoccupazione: se si vuole ridurre quel nero 12,3% di disoccupazione che affligge l’Italia la strada da seguire non è quella di semplificare le procedure burocratiche di licenziamento o di assunzione da parte delle imprese. Keynes, ancora prima di Blanchard e di tutta la scuola liberista atlantica degli anni ’80, arguiva come il problema delle rigidità salariali fosse più una faccenda politica che economica. Proviamo a spiegare meglio questo secondo punto.

Il Jobs Act, tra le altre cose, regolamenta in modo dettagliato i già tristemente e ben noti “contratti di solidarietà”, strumento con cui le imprese possono ridurre gli stipendi e le ore di lavoro dei dipendenti in caso di difficoltà economiche. La novità del decreto renziano risiede nel fatto che questa fattispecie contrattuale verrà usata per espandere l’occupazione: più che di un “lavorare meno, lavorare tutti” latouchano, si tratta di creare una concorrenza selvaggia al ribasso salariale tra i lavoratori. Chi sarà maggiormente disponibile a vedersi ridurre tutele e paghe orarie continuerà a lavorare, gli altri saranno flessibilmente invitati a farsi da parte. E ciò viene fatto in base al vecchio principio neoclassico (criticato da Keynes nel passo sopracitato) secondo cui la flessibilità salariale sarebbe lo strumento più efficace per l’uscita dalla stagnazione produttiva.

Ma se voi foste imprenditori, assumereste lavoratori in più perché potete licenziarli con maggiore facilità rispetto al passato o perché il negozio è pieno di clienti che chiedono i vostri prodotti? Che sia forse il caso di mettere in atto investimenti pubblici per rilanciare l’occupazione e la produzione privata?

Un’ultima suggestione. Il Jobs Act introduce l’istituto delle “ferie solidali”, meccanismo per cui si possono regalare le proprie ferie ad altri colleghi che ne hanno bisogno per assistere figli minori bisognosi di cure. Al di là del fatto che questo genere di problemi si risolvono con un istituto molto più complesso che si chiama welfare, promettiamo ai nostri lettori di fare un’inchiesta sul mercato nero delle ferie che in un paese come l’Italia è scontato che prenderà rapidamente piede.

[1] http://www.repubblica.it/economia/affari-e-finanza/2014/02/24/news/non_basta_un_act_per_creare_jobs-79477013/



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