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Anche con la comunicazione si può fare la guerra agli jihadisti di ritorno

Riceviamo e volentieri pubblichiamo il testo dell’intervento di Claudio Neri dell’Istituto di Studi Strategici Niccolò Machiavelli all’Assemblea Parlamentare della Nato (Sottocomitato per il Mediterraneo e per il Medio Oriente), tenuta a Catania tra il 2 e il 4 ottobre scorsi, durante la settima sessione dei lavori dedicata al tema dei foreign fighters. 

Secondo un rapporto del Soufan Group nei tre anni di conflitto siriano circa 12mila foreign fighters si sarebbero recati in Siria per combattere con i ribelli. Tale numero però comprende anche i soggetti che hanno fatto ritorno ai Paesi di origine ed i combattenti morti in battaglia. Questi ultimi, secondo dati di fine 2013, ammonterebbero a circa l’8/10%. Non comprende, invece, i combattenti stranieri che operano o hanno operato tra le fila delle forze governative. Secondo il Soufan Group tra i 3 ed i 4mila uomini sarebbero accorsi in aiuto del regime di Assad, in gran parte provenienti dall’Iran, dall’Iraq e dal Libano e con un consistente supporto governativo iraniano. Secondo altre fonti, israeliane e statunitensi, il numero sarebbe più elevato: tra i 7 e gli 8mila.

Dei 12mila foreign fighters tra le fila dei ribelli circa 2,5/3mila proverrebbero da Paesi occidentali.

Il condizionale, però, è d’obbligo. Le stime sul numero dei combattenti stranieri – in Medio-Oriente in generale e nell’area siro-iraqena in particolare – variano ed anche quelle ufficiali fornite dai governi, i quali tracciano i movimenti verso l’estero dei propri cittadini o residenti, hanno o possono avere dei margini di errore di una certa importanza. Nello stesso report del Soufan Group, i cui dati sono aggiornati a fine maggio di quest’anno (il report è stato pubblicato a giugno), si cita una stima realizzata dai Servizi segreti statunitensi. A gennaio il direttore dell’intelligence di Washington James Clapper, valutava in più di 7mila i foreign fighters presenti in Siria. Provenienti, secondo Clapper, da circa 50 differenti Paesi. Secondo l’analisi del Soufan, invece, i Paesi di provenienza dei 12mila combattenti stranieri stimati sarebbero almeno 81.
Pochi giorni fa, infine, lo stesso Presidente Obama ha rivisto la stima aumentandola a più di 15mila foreign fighters. Ci rendiamo conto, quindi, di come il range possa essere consistente. Sia a causa della fluidità e della dinamicità di una situazione che è in continua evoluzione, sia a causa di un’oggettiva difficoltà nel formulare delle stime, ma anche per una differenza, che è possibile riscontrare nei vari report, nella definizione di “combattente straniero”.

Le dimensioni del fenomeno
Ciò premesso è comunque possibile affermare che il contingente di combattenti stranieri operanti in Siria in questi tre anni è sicuramente uno dei più ampi mai registrati nella storia di quella che un valido ricercatore, Thomas Hegghammer, definisce “private global foreign fighter mobilization” nel mondo musulmano. Analizzando i dati elaborati di Hegghammer notiamo che nel conflitto afghano degli anni ’80 i combattenti stranieri, c.d. “arabi afghani”, sono stati tra i 5.000 ed i 20.000. In quello iraqeno, successivo all’invasione statunitense del 2003, i combattenti stranieri sono stati tra i 4 ed i 5mila. E’ quindi evidente che la mobilitazione attuale verso la Siria è una delle più consistenti mai verificatesi nel mondo musulmano e deve essere, quindi, monitorata con grande attenzione.

Elementi di preoccupazione
Un dato che emerge con chiarezza, in particolare, è l’intensità nell’afflusso di combattenti stranieri verso la Siria. Tra i 12 ed i 15mila in tre anni mentre, ad esempio, in Iraq si parla di 4/5mila in circa sette anni (2003-2010). In Afghanistan, invece, tra i 5.000 ed i 20mila (cifra, questa, elevatissima) ma in dodici anni (1980-1992). La Siria, quindi, attrae foreign fighters con un ritmo nettamente più elevato rispetto ai conflitti precedenti anche se andrebbero effettuate ulteriori ricerche per valutare i tempi medi di permanenza in teatro di questi combattenti.
Ciò che colpisce è la progressione nell’afflusso di combattenti stranieri dal 2012 ad oggi. Nella prima metà di quell’anno venivano segnalati come affluiti in Siria tra i 700 ed i 1.400 foreign fighters. Nell’agosto del 2013 il numero era salito a circa 6mila. Adesso, secondo le fonti che ho appena citato, il numero è arrivato a circa 15mila. E’ fuor di dubbio, quindi, che la guerra siriana o, meglio, il conflitto siro-iraqeno, costituisca attualmente un potentissimo catalizzatore per determinati soggetti all’interno delle comunità musulmane internazionali, medio-orientali in particolare.

La questione dei Paesi di origine
Da dove partono i combattenti stranieri che si recano in Siria? Da circa 80 Paesi. La maggioranza, però, arriva da quattro/cinque Paesi arabi. In dettaglio, si stima che dalla Tunisia si siano recati in Siria circa 3mila combattenti, dall’Arabia Saudita circa 2.500, dalla Giordania circa 2mila, dal Marocco circa 1.500. Inoltre 800 dal Libano, circa 500/1000 dalla Libia, circa 400 dalla Turchia, circa 360 dall’Egitto. Complessivamente questi Paesi alimentano almeno per l’80% l’afflusso di foreign fighters in Siria.
Che peso ha, quindi, l’Occidente in questo flusso di volontari? I numeri sono nettamente inferiori rispetto al mondo arabo anche se da Francia, Gran Bretagna e Germania – ma anche da Belgio, Danimarca, Australia e Olanda -risultano partite verso la Siria diverse centinaia di volontari. In particolare, circa 700 dalla Francia, circa 400 dalla Gran Bretagna e circa 250/280 dalla Germania, dal Belgio e dall’Australia. A livello di dati aggregati è comunque possibile affermare che l’attuale fenomeno dei foreign fighters verso la Siria è in gran parte un fenomeno interno al mondo arabo, con una componente numericamente ristretta sul totale che coinvolge l’Occidente, soprattutto l’Europa.
I combattenti sono all’85/90% uomini sotto i 40 anni. La fascia di età media è di 18-29 anni. Molto giovani, quindi, anche rispetto alle precedenti mobilitazioni, verso l’Iraq e l’Afghanistan, per esempio (età media tra i 25-35 anni). E’ segnalata anche una ridotta presenza femminile, circa il 10/15%.

I gruppi beneficiari
Dove vanno a combattere i volontari che affluiscono in Siria, sia quelli che giungono dal Medio-Oriente che quelli che arrivano da Paesi occidentali? Secondo le informazioni disponibili sono quattro i principali gruppi combattenti che beneficiano del flusso di volontari stranieri:, Jaish al Muhajireen wal-Ansar, un gruppo che ha una consistente presenza di ceceni; Sukur al-Sham, forte di circa 10/20mila uomini al suo interno opererebbero combattenti provenienti dalla Francia e dal Belgio ed avrebbe nella sua leadership elementi legati ad al Qaeda; Jabhat al-Nusra, una componente di Al Qaeda in Siria e con una presenza di veterani che hanno combattuto in Iraq contro gli americani; l’Isis, che ha le sue origini nell’organizzazione dello Stato islamico iraqeno (organizzazione c.d. ombrello) creata nel 2006. Quest’ultimo gruppo avrebbe al suo interno un numero elevatissimo di combattenti stranieri, secondo alcune stime addirittura tra il 30 ed il 40%. In particolare, i combattenti stranieri provenienti dall’area MENA confluirebbero soprattutto verso al Nusra e verso l’Isis all’interno dei quali i foreign fighters costituirebbero la componente fondamentale.

Il contributo militare degli stranieri
Qual è il contributo militare che questi volontari stranieri forniscono ai gruppi combattenti nei quali vengono inseriti? Generalmente i volontari che si recano in Siria non hanno addestramento militare, anche a causa della loro giovane età. In particolare quelli che provengono dall’Europa. Ovviamente non è sempre così e sono molti i casi accertati di veterani di precedenti conflitti, ad esempio di quello irakeno degli anni 2000, ma anche ceceni, pakistani e libici. In linea tendenziale i combattenti provenienti dal Medio-Oriente dovrebbero essere più competenti militarmente rispetto ai loro compagni che provengono dai Paesi occidentali, perché in molti casi hanno già partecipato a conflitti. I soggetti non addestrati vengono comunque sottoposti ad un ciclo di veloce condizionamento (circa sei settimane) e vengono poi inseriti nelle unità combattenti. Il contributo militare dei foreign fighters è considerato significativo soprattutto nei gruppi jihadisti e qaedisti, ad esempio per quanto riguarda gli attacchi suicidi (con un’alta percentuale di sauditi e giordani coinvolti in tali attacchi).
Proviamo ad esaminare il fenomeno cui stiamo assistendo in questi mesi, ovvero il considerevole afflusso di volontari stranieri verso il Medio-Oriente, in particolare verso Siria ed Iraq, in un quadro storico più ampio. La letteratura specialistica ci vene in aiuto permettendoci di identificare le tendenze di lungo periodo, individuare similitudini e rotture con il passato, e, soprattutto, ci permette di comprendere alcune fondamentali dinamiche.

Un fenomeno recente
In primo luogo, benché, come a tutti noto, il fenomeno dei foreign fighters non sia nuovissimo, di questi ultimi anni, esso è però un fenomeno recente nella storia della conflittualità medio-orientale. La prima volta in cui è stato possibile individuare un contingente, seppur ridottissimo,di combattenti stranieri è in occasione della guerra arabo-israeliano del 1967 (si stimano meno di 100 uomini). Ma è negli anni ’80 e, soprattutto, negli anni ’90 che il fenomeno si consolida. Secondo i dati elaborati da Hegghammer su 70 conflitti arabi combattuti dopo il 1945 solo in 18 è stato possibile individuare contingenti di foreign fighters, per la maggior parte, peraltro, contingenti di numero estremamente esiguo. Tra questi diciotto, 16 sono i contingenti di combattenti stranieri che hanno operato dagli anni ’80 in poi, 10 negli anni ’90, 5 negli anni 2000. Il fenomeno, quindi, è oggettivamente recente. Una realtà degli ultimi 30 anni che inizia con il conflitto afghano degli anni ’80, continua in Bosnia negli anni ’90 e prosegue in Cecenia, in Iraq negli anni Duemila e adesso in Siria. Questo è un elemento di conoscenza e di riflessione importante che ci può permettere di identificare i meccanismi di attivazione di un flusso di combattenti stranieri verso un determinato conflitto.

Piccola incidenza numerica
Secondo, analizzando più in dettaglio i contingenti notiamo che generalmente i c.d.foreign fighters hanno costituito una parte minima dei combattenti in quel determinato conflitto. Il conflitto con il contingente di combattenti stranieri percentualmente più elevato, fino ad ora (Siria esclusa), è stato, secondo i dati in nostro possesso, quello iraqeno degli anni Duemila. In quel conflitto il 5% degli insorgenti erano combattenti stranieri. In Siria, invece, questa cifra percentuale sembra essere superiore. Anche se necessitano ulteriori ricerche.

Il flusso di ritorno
Nei conflitti precedenti la stragrande maggioranza di combattenti stranieri proveniva da Paesi arabi, in generale, e dall’Arabia Saudita in particolare. Tale dato sembra essere confermato anche nel conflitto siriano nel quale, per l’appunto, circa l’80% dei combattenti stranieri proviene dal mondo arabo. Su questo dato dobbiamo riflettere un attimo. E’ evidente, infatti, che attualmente esista il pericolo che tali combattenti, dopo essere stati addestrati ed estremizzati in Siria ed in Iraq, ritornino nei loro Paesi di origine (Nord Africa e penisola araba) e attivino o rivitalizzino focolai di instabilità nell’area MENA. Tensioni, peraltro, che noi europei ci ritroveremmo alle porte di casa. In particolare, esiste il pericolo che combattenti siriani, estremizzati, radicalizzati ed addestrati militarmente, al ritorno nei Paesi medio-orientali, possano aderire a reti terroristiche pre-esistenti o possano crearne di nuove. Magari anche restando in contatto con organizzazioni come al Nusra o l’Isis.

Panislamismo, solidarietà e vittimismo
Infine, la ricerca accademica nel campo degli studi strategici sembra indicare con sufficiente chiarezza che le motivazioni reali dei processi di mobilitazione su ampia scala di combattenti stranieri islamici verso conflitti esteri abbiano più a che fare con una ideologia pan-islamica che non con motivazioni religiose strettamente intese. Questa visione, questa dottrina, che adesso potremmo definire di “solidarietà pan-islamica”, ha creato il contesto ideologico per la nascita, negli anni ’80, di una sorta di movimento dei “combattenti stranieri” che fece la sua prima vera apparizione in Afghanistan e, via via, è arrivato fino ai giorni nostri. Un movimento che si è rafforzato nel corso degli anni sicuramente anche grazie ad alcuni fattori “facilitanti”, come la globalizzazione delle comunicazioni e dei trasporti (veloce e facile diffusione di video, foto, riviste, messaggi, minor costo per i viaggi e facilità negli spostamenti), ma che tutt’ora opera soprattutto grazie ad una rete di militanti ed attivisti sostenitori di questa ideologia (o dottrina) “pan-islamica” che considera un obbligo per ogni musulmano quello di correre in aiuto del proprio fratello minacciato, anche se all’estero, e che diffonde all’interno delle comunità musulmane mondiali (soprattutto medio-orientali, europee ed asiatiche) una visione allarmista secondo la quale la comunità islamica transnazionale sarebbe gravemente minacciata ed aggredita da potenze straniere (non solo occidentali, attenzione) o da despoti arabi al soldo degli stranieri.

Concludo, affermando che, oltre agli opportuni interventi di tipo militare, di intelligence e di polizia giudiziaria, è questa specifica narrativa vittimistica, questa ideologia, che deve essere contrastata nel lungo periodo anche attraverso idonee operazioni di comunicazione strategica. Gli studi a nostra disposizione, infatti, indicano che affinché si realizzino grandi ondate di mobilitazione su scala internazionale è indispensabile che vi sia, come substrato, un’ideologia che faccia perno sugli aspetti vittimistici e solidaristici all’interno di una vera o presunta comunità islamica transnazionale minacciata.

L’efficiente contrasto di tale ideologia dovrebbe ridurre in modo consistente l’afflusso di volontari verso i conflitti arabo-islamici. Ovvero limiterebbe il numero di soggetti che, pur non estremizzati in partenza, possono estremizzarsi dopo l’inserimento in un contesto di estrema violenza, tipico di conflitti civili come quello siro-iraqeno, e all’interno di gruppi jihadisti e qaedisti.


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