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Lavoro, art.18 e riforme per uscire dalla crisi: parla il prof. Giovanni Orlandini

Il tema del lavoro è sicuramente IL tema politico del momento. Tuttavia, lo dico senza polemiche, nei media tradizionali e non, si tende a privilegiare posizioni semplicistiche, con lo scopo di disegnare vere e proprie contrapposizioni del tutto ideologiche.  La mia opinione è che su questo tema servano serietà, competenza e pazienza. Per contribuire, nel mio piccolo, a questo dibattito che reputo personalmente fondamentale, ho deciso di intervistare alcuni esperti di diritto del lavoro e di relazioni industriali. Così, dopo il prof. Stefano Liebman, dell’Università Bocconi, oggi propongo una interessantissima e approfondita intervista al prof. Giovanni Orlandini, esperto di diritto del lavoro, dell’Università di Siena. 

Prof. Orlandini, l’OCSE ha rivisto alcune considerazione sul Mercato del lavoro italiano, prima eravamo troppo rigidi ora siamo molto flessibili. Eppure il Governo sembra dirci che abbiamo bisogno ancora di più flessibilità. Cosa ne pensa?

Se il riferimento è agli indici sulla c.d. flessibilità in uscita, per la verità l’OCSE non ha mai considerato “troppo rigida” la disciplina del licenziamento in Italia, perché questo giudizio in passato era condizionato da un errore nei criteri di valutazione che fu a suo tempo svelato da una ricerca di studiosi della Bocconi.

E di quale errore si tratta?

In sostanza l’OCSE aveva frainteso la funzione del TFR. Detto questo, penso che non esiste un livello “giusto” di flessibilità, perché il giudizio in merito dipende dal punto di vista che si assume e dai fini che si intendono perseguire. Se il fine è quello della massima compressione del costo del lavoro, non c’è dubbio che il nostro resta un sistema troppo rigido. Se è su questo piano che s’intende competere a livello internazionale e se l’Italia vuole diventare un bacino di manodopera a basso costo per le economie forti dell’Europa, riformare l’art.18 è un obiettivo condivisibile. Naturalmente bisogna a questo punto avere anche l’onestà intellettuale di riconoscere che, finché esistono dei diritti dei lavoratori, il mercato del lavoro resta “troppo rigido”  e che quindi la flessibilità “giusta” è quella che presuppone la fine del modello sociale europeo. Se invece non è questa la prospettiva che si segue, il discorso cambia.

Ci può spiegare meglio? 

La disciplina del licenziamento è stata riformata appena due anni fa con la c.d. legge Fornero (n.92/2012) che ha svuotato sostanzialmente il meccanismo della reintegra, così come fu concepito nello Statuto dei lavoratori del 1970. Per effetto di quella legge ormai i casi di reintegra sono diventati residuali. Spesso lavoratore e datore si accordano su un indennizzo ed evitano il processo. Anche quando si arriva alla sentenza del giudice, questo ordina le reintegrazione solo in caso di “manifesta insussistenza” delle ragioni che giustificano il licenziamenti, cioè nei casi più evidenti di licenziamenti privi di qualsiasi ragione giustificativa. Tutto ciò, si badi bene, soltanto nelle aziende con più di 15 dipendenti, perché nelle altre (che impiegano circa la metà dei lavoratori dipendenti) al lavoratore illegittimamente licenziato spetta solo un esiguo indennizzo di qualche mensilità.  E’ seriamente sostenibile che questo regime dei licenziamenti sia “troppo rigido”?

In un’altra intervista, il prof. Liebman ci metteva in guardia da questo Jobacts sostenendo che per ora è “un libro dei sogni”…

Commentare il Jobsact, ovvero il ddl delega approvato al Senato l’8 ottobre, è un’impresa ardua e forse inutile, talmente vaghi e generici sono i principi e criteri direttivi che vi sono contenuti ed ai quali dovrebbe attenersi il Governo nell’adottare i decreti delegati. Si tratta di una delega (in alcuni casi, appunto, in bianco) a riformare l’intero sistema del diritto del lavoro, cui si associa la revisione degli ammortizzatori sociali, del sistema ispettivo e dei servizi per l’impiego, con una coda riservata ai congedi parentali ed agli strumenti di conciliazione vita-lavoro. Un piano dunque ambiziosissimo che avrebbe richiesto ben altri tempi e, almeno a leggere il testo approvato al Senato, ben altre competenze. La parte più “innovativa” è quella nella quale si delega il governo a riscrivere in un “testo organico semplificato” la disciplina “delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro”. E’ proprio questa parte a peccare di maggior genericità nei principi e criteri direttivi, tanto che la materia del licenziamento, che ha monopolizzato il dibattito intorno al Jobsact, non viene neppure affrontata esplicitamente.

Quindi su cosa si basa la discussione sull’art.18?

La riforma dell’art.18 dovrebbe derivare dall’introduzione del c.d. “contratto a tutele crescenti” e dall’adozione di misure tese a “rendere più conveniente” il contratto a tempo indeterminato rispetto alle forme atipiche di impiego. Tradotto, licenziamento libero per i primi anni (3?) di impiego. In sede di decretazione dovrebbe (ma nulla è scritto nella delega) anche passare l’eliminazione della reintegra per i licenziamenti “economici”: un gioco di parole, che nasconde l’introduzione della libertà di licenziare dietro mero indennizzo fissato dalla legge. La maggior flessibilità in uscita dovrebbe servire a contrastare la precarietà, ma è difficile capire come ciò dovrebbe avvenire. Il contratto a termine fino a tre anni è stato infatti liberalizzato da questo stesso Governo (DL 34/2012) e nel Jobs Act si prevede l’estensione a tutti i settori dell’utilizzo del lavoro accessorio (quello basato sul sistema dei voucher), che rappresenta la forma più estrema di precarietà. Ne consegue che un lavoratore in ipotesi impiegato per anni con queste forme contrattuali, grazie alla riforma si troverà ad essere (forse) finalmente assunto a tempo indeterminato, ma esposto al costante rischio di essere licenziato arbitrariamente dietro erogazione di qualche mensilità. Se questo significa contrastare il precariato, forse dovremmo intenderci sul significato dei termini.

A parte la riforma dell’art.18, quali altri aspetti della riforma non la convincono?

Ve ne sono molti, a partire dalla legittimazione del demansionamento del lavoratore. Ma il passaggio a mio parere più regressivo della delega attiene all’introduzione del “compenso orario minimo” per legge. I minimi salariali nel nostro paese sono infatti da sempre stabiliti dai contratti collettivi nazionali di categoria. Introducendo dei minimi per legge (evidentemente più bassi di quelli contrattuali) si invita di fatto le imprese a sottrarsi al contratto nazionale, che perderebbe così la sua funzione primaria. Il rischio insomma è di far saltare l’intero sistema di contrattazione collettiva e di alimentare una spirale depressiva sui salari, ancora più drammatica di quella già in atto. Ma come detto, se l’obiettivo è quello di rendere il nostro paese competitivo sul piano del costo del lavoro, probabilmente è un rischio del quale il legislatore è pienamente consapevole.

Quali potrebbero essere, secondo lei, le norme o le iniziative da inserire in questo Jobsact, per realizzare un sistema di “flexsecurity” reale e non solo apparente? Penso alle riforme realizzate in Germania e non ultima quella del reddito minimo, il Mindestlohn.

La Flexicurity “reale” richiede risorse che, al momento, mi pare non siano nella disponibilità del Governo. D’altra parte la “debolezza” dell’idea di flessicurezza   (da anni promossa dalle istituzioni dell’UE) sta proprio nel fatto che, per realizzarla, servono risorse. Il problema è decidere dove intervenire per reperirle. Presupposto implicito perché la flessicurezza funzioni è che la maggior flessibilità introdotta nel mercato del lavoro si traduca in crescita economica e, quindi, in maggiori risorse da investire negli strumenti di protezione sociale, tra i quali, in primo luogo, le misure universalistiche di sostegno del reddito. Se però la ricetta malauguratamente non dà i risultati sperati, ed a maggior flessibilità non si associa maggior crescita ma solo maggior precarietà, le risorse semplicemente non ci sono. E dal momento che queste (per ovvi motivi politici) non possono essere reperite né aumentando il costo del lavoro a carico delle imprese né la pressione fiscale, non resta che trovarle dai soliti noti: pensionati e lavoratori. Ecco che allora i diritti sociali e del lavoro diventano “privilegi” ai quali è necessario rinunciare per far fronte alle esigenze di chi è escluso dal mercato del lavoro. Tutto questo per dire che l’intero discorso sulla flessicurezza non è serio se non si intende cambiare radicalmente gli orientamenti di politica economica, affrontando il problema della (crescente) disuguaglianza nella distribuzione del reddito; problema all’origine di tutte le questioni delle quali stiamo discutendo.

E cosa si potrebbe fare per intervenire concretamente su questo crescente divario nella distribuzione del reddito?

Nel nostro paese sarebbe necessario un reddito di cittadinanza come misura di tutela universale del reddito per quanti oggi non beneficiano degli esistenti ammortizzatori sociali. Ma, appunto, si tratta di capire in che modo finanziarlo. Reperire le risorse smantellando il sistema della Cassa integrazione guadagni non mi sembra una buona idea… Personalmente non guardo con particolare entusiasmo neppure al modello tedesco, che conferma piuttosto quanto appena detto. Il salario minimo (Mindestlohn) anche in quel caso rappresenta una debole risposta all’enorme problema della precarizzazione del mercato del lavoro prodotto dalle riforme Hartz. Sugli effetti che potrebbe avere la sua introduzione in Italia ho già detto. Il Governo dovrebbe favorire la crescita delle retribuzioni, in modo da aumentare anche le risorse a disposizione del sistema previdenziale; invece si persegue l’obiettivo opposto, smantellando il sistema contrattuale nel settore privato e bloccando i rinnovi di quello pubblico.

L’art.18 di cui si è discusso sembra essere diventato il centro della discussione su questa riforma del lavoro, si vuol far passare l’idea che all’estero questo set di tutele per i lavoratori non esista, è davvero così?

In primo luogo è necessario ribadire che l’art.18 è già stato riformato nel 2012. Questo significa che la reintegra non è più l’automatica conseguenza dell’accertamento da parte del giudice di un licenziamento illegittimo. Sorprende davvero che il dibattito in corso prescinda da questo dato di realtà e sembra presupporre che in Italia viga ancora la norma del 1970! Ciò detto, la regolazione del licenziamento nei vari paesi europei è molto articolata. In generale si può dire che non esiste un paese dove il licenziamento discriminatorio (ti licenzio perché donna, omosessuale, iscritto al sindacato…) non è sanzionato con la reintegrazione del posto di lavoro; mentre in alcuni paesi (ad es. in Spagna) la reintegra è sostituita da un indennizzo nel caso in cui il lavoratore non sia in grado di provare la discriminazione, ma il licenziamento è comunque privo di una delle ragioni che lo giustificano (inadempimenti del lavoratore o esigenze economiche dell’azienda). Non ha dunque alcun fondamento di verità l’affermazione per la quale la “reintegra” sarebbe uno strumento di tutela che esiste solo in Italia. Persino negli Stati Uniti, dove in teoria esiste il principio del licenziamento libero, esistono casi (la discriminazione ad esempio, ma non solo) nei quali il giudice può ordinare il reinserimento nel posto di lavoro.

Quindi a livello internazionale la situazione non è tanto diversa…

Gli standard internazionali in materia, fissati dall’OIL e dal Consiglio d’Europa, prevedono che il rimedio “normale” in caso di licenziamento illegittimo sia la reintegra (reinstatement) e che questa sia sostituibile da un indennizzo solo se di entità tale da risarcire effettivamente il lavoratore della perdita del posto di lavoro e da costituire un efficace deterrente per i comportamenti del datore. Fino ad oggi non c’è stata nessuna “anomalia italiana” dunque, ma il semplice recepimento di principi consolidati persino sul piano del diritto internazionale. A questo proposito, è curioso che nella legge delega si preveda espressamente che la riforma dovrà rispettare “le convenzioni internazionali”. Forse il Governo non è consapevole del fatto che il “contratto a tutele crescenti” che esclude la tutela per il licenziamento per i primi anni di impiego, è stato più volte dichiarato in contrasto con la Convenzione OIL 158/82 e con la Carta Sociale Europea, da ultimo, con riferimento alla riforma del licenziamento imposta alla Grecia dalla Troika.

Ultima domanda: Sindacati e Governo sono di nuovo in conflitto, questo clima di tensione e il tentativo da parte del Governo di delegittimare il Sindacato come istituzione che effetti avrà sul sistema di relazioni sindacali?

L’attuale Governo ha definitivamente superato la prassi della concertazione. E’ inevitabile che ciò si traduca in un aumento della conflittualità sociale e sindacale. Tuttavia molto dipenderà dai rapporti interni tra le diverse confederazioni sindacali, avendo come noto Cisl e Uil da una parte e Cgil dall’altra posizioni diverse in merito alle riforme del mercato del lavoro e del sistema di relazioni industriali. Sotto quest’ultimo profilo, una posizione unitaria è stato raggiunta nel gennaio di quest’anno con la sottoscrizione del c.d. TU sulla rappresentanza che detta regole nuove per costituire le rappresentanze sindacali in azienda e (soprattutto) per la contrattazione collettiva. Si tratta di un accordo che sposta il baricentro del sistema contrattuale dal livello nazionale a quello aziendale, pur mantenendo il CCNL come ineludibile strumento di garanzia, per lo meno, dei minimi salariali. Gli equilibri tra le parti sociali, tra le diverse confederazioni sindacali ed all’interno delle stesse confederazioni, la Fiom non ha approvato il TU, restano precari. Certo è che se l’idea di relazioni sindacali del governo è davvero il “modello Fiat” di Marchionne, il sistema esistente rischia di saltare del tutto e si aprirebbe uno scenario di “balcanizzazione” delle relazioni industriali, con un sindacato legittimato solo come agente negoziale e di rappresentanza a livello aziendale.

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