Leonardo Del Vecchio è il vero Re del Veneto. E come tutti i monarchi, mal sopporta principi troppo ingombranti. Siede su un impero, fatto di occhiali, da 7 miliardi di euro (cosa che gli regala il primato di essere tra i 40 uomini più ricchi del pianeta). Un impero costruito, dal 2004 a oggi, su un matrimonio d’acciaio che sembrava inossidabile: Leonardo Del Vecchio–Andrea Guerra. Ma come tanti matrimoni felici, in un Ferragosto tra i più freddi che si ricordino, l’unione è sfociata in un clamoroso divorzio.
Dalla profonda provincia bellunese, Del Vecchio regna incontrastato su 130 Paesi, produce occhiali per decine di griffe del lusso e tra i suoi assi nella manica vanta anche i fantascientifici Google Glass, gli occhiali del futuro. Con 75 milioni di montature costruite ogni anno, la sua Luxottica è la più grande azienda italiana della moda. E una delle vere (ma poche) multinazionali che il Paese conta (sulle dita di una mano). Creata dal nulla in 50 anni. Con un volo pindarico, appare Tom Cruise: l’immagine che ha cristallizzato la fama della star di Hollywood è quella del film Top Gun dove l’attore americano incarna l’icona del pilota di caccia indossando gli occhiali da aviatore, quelli a goccia con la lente verde e la montatura color oro. I mitici Ray-Ban. Proprio a partire da quegli occhiali Luxottica ha iniziato la sua marcia trionfale. Che non si è ancora fermata. In mezzo secolo, Del Vecchio ha costruito, partendo da zero, il numero uno al mondo degli occhiali. Ha iniziato nel 1961, l’imprenditore 78enne, milanese di nascita, ma pugliese di origini (il papà vendeva frutta a Barletta), ad Agordo, 4mila anime incastonate tra i monti veneti: il Bellunese era già una zona di artigiani degli occhiali.
Il segreto di tanto successo? Del Vecchio ha avuto tre intuizioni geniali, da vero imprenditore. La prima: Luxottica doveva avere un portafoglio di marchi, ossia produrre occhiali firmati da famosi designer. O meglio averne più di tutti. Oggi, sembra normale avere accessori griffati, ma non lo era quando ad Agordo lo intuirono quasi venti anni fa. E si comprarono, nel 1999, l’americana Bausch&Lomb, la casa dei Ray–Ban. Un marchio storico, celeberrimo, quello appunto immortalato da Tom Cruise (e qui si ricongiunge il volo pindarico). Gli Aviator e i Wayfarer sono stati il primo riuscitissimo acquisto. Ma nel giro di poco tempo, con una costante tenacia e senza sbagliare un colpo, Luxottica si è impossessata dei marchi più famosi al mondo. Come il big americano Oakley, numero uno negli occhiali tecnici da sport, comprato nel 2007 per 2 miliardi di dollari. Ultimo colpo, in ordine di tempo, la francese Alain Mikli, acquisita appena pochi mesi fa. Oggi Luxottica conta dodici marchi di proprietà, tra cui Persol, Vogue e Oliver Peoples. Ma non basta. Puoi fare gli occhiali più belli del mondo, i più
glamour o i più economici, ma se poi non li vendi, non funzioni.
L’occhiale da sole è il classico bene di consumo voluttuario e superfluo (nel linguaggio dell’economia si chiamano discretionary goods). La distribuzione è fondamentale. Ed ecco la seconda intuizione di Del Vecchio: essere nei negozi migliori e soprattutto in tanti negozi per invogliare all’acquisto di qualcosa che non è strettamente necessario. E allora la mossa strategica, che ha decretato il successo mondiale, è stata non solo comprare i marchi, ma soprattutto controllare le catene di ottica. A partire dall’America, il mercato più grande al mondo. Del Vecchio mise le mani su Lenscrafter, grande rete di negozi di occhiali, già nel lontano 1995, ancor prima dell’acquisizione dei Ray-Ban. Poi il raddoppio sempre negli Usa con Sunglass Hut. E, ancora, l’Asia–Pacifico con l’australiana OPSM. Poi i paesi emergenti con la brasiliana Tecnol. E, infine lo sbarco nel mondo di internet, con il recentissimo acquisto della statunitense Glasses.com, la Amazon degli occhiali. Oggi Luxottica non solo produce milioni di montature, ma controlla più di 6mila negozi nel mondo. Negozi che servono per piazzare al consumatore la propria merce. Così Luxottica ha fatto terra bruciata attorno a sé. Agli altri (che poi sono italiani, anzi vicini di casa, veneti anche loro, come Safilo o Marcolin) rimangono le briciole.
Briciole belle grosse, ma pur sempre briciole. Luxottica ha rivoluzionato anche l’industria imponendo su larga scala il modello delle licenze, inventato dai cugini–nemici di Safilo. Dietro il boom dell’industria dell’occhialeria degli anni ‘90 c’è il matrimonio tra i produttori e le grandi griffe del lusso e della moda. Gli occhiali firmati piacciono, sono uno status symbol, fa figo indossarli, non sono più un fastidioso dispositivo medico. E a un prezzo accessibile permettono alle persone di sentirsi parte del mondo del glamour e del jet set.
Luxottica conta oggi in portafoglio una ventina di licenze. Tutti i più importanti nomi al mondo, da Prada a Versace, da Tiffany a Ralph Lauren, da Chanel a Bulgari, si fanno produrre gli occhiali dal numero uno veneto. Negli annali rimarrà l’epica battaglia su Giorgio Armani. Che Luxottica ha strappato alla concorrente, ma molto più piccola, Safilo. Normalmente tra le licenze c’è sempre un turnover, molti stilisti passano da un produttore all’altro, a seconda del momento e da quanto viene offerto per la licenza, ma quella sulla casa di moda milanese fu una vera e propria guerra. La spunta il più grande tra i due contendenti, com’era abbastanza prevedibile e la neonata allenza tra Luxottica e Armani viene poi cementata da una partecipazione incrociata. Del Vecchio produce gli occhiali per Armani e Re Giorgio diventa socio di Del Vecchio, comprando il 5% di Luxottica. Un matrimonio commerciale praticamente indissolubile.
La terza mossa strategica riguarda la famiglia. Del Vecchio haintuito in anticipo, e risolto, il problema dove vanno a schiantarsi quasi tutte le aziende familiari italiane: la successione del potere e i figli (non sempre all’altezza dei padri). Il patron Leonardo ha evitato la sindrome Esselunga (la faida familiare tra Bernardo Caprotti e i suoi figli è ormai una sorta di caso di scuola, ma al contrario, ovvero da non seguire) con una soluzione pacifica e senza rotture per garantire il futuro dell’azienda. Da una parte un passo indietro del patriarca: Del Vecchio si è ritagliato il ruolo di puro azionista e ha affidato l’azienda a manager esterni e nomi di alto profilo. Al figlio Claudio, che comunque siede nel consiglio di amministrazione, ha dato in “regalo” la Brooks Brothers, storica casa americana di camicie, con cui fare gavetta da imprenditore. La separazione tra proprietà e gestione è l’architrave del capitalismo moderno. Confidando in questa intuizione, esattamente dieci anni fa Del Vecchio aveva chiamato, almeno fino al terremoto di Ferragosto, uno dei migliori manager in circolazione per la guida dell’azienda, Andrea Guerra.
Da allora la famiglia si limita a incassare i ricchi dividendi che ogni anno Luxottica stacca e paga alla cassaforte Delfin.Quest’anno entreranno nel tasche della famiglia Del Vecchio 180 milioni di euro. Sotto l’egida di Guerra, l’uomo che prima aveva reso grande la Indesit della famiglia Merloni (portandola da 4 a 14 euro in Borsa), corteggiato pure da Matteo Renzi per il nuovo “governo di rottura” col passato, Luxottica è stata uno schiacciasassi: da 13 a 40 euro. Ogni anno una crescita del 7/8%. Roba da Cina. Invece siamo in Italia. E il bello è che succede da almeno 15 anni: nel 2001 Luxottica faceva 2 miliardi e mezzo di ricavi; quattro anni dopo era salita a 4 miliardi, quasi il doppio. Nel 2012 ha varcato la soglia dei 7 miliardi e l’anno scorso ha superato i 7,3. Attualmente Luxottica fa, di soli utili, oltre mezzo miliardo di euro, cioè quanto un’azienda medio–grande, e di successo, fa di fatturato. Il 2014 segnerà l’ennesima corsa al galoppo (quota 7,5 miliardi di ricavi?
Forse anche di più, visto che a metà 2014 è già a 4 miliardi e il periodo migliore per le vendite è l’estate). Ma ecco l’imprevisto, il fulmine a ciel sereno (ma per chi ha assiduità con la famiglia forse non così sorprendente): l’addio di Guerra. Anzi, una sorta di cacciata con il patron Del Vecchio indispettito, si dice, da alcuni comportamenti del manager che, per quanto capace, rimane pur sempre un “suddito” agli occhi del sovrano: le troppo generose stock options (dalle quali ha incassato circa 60 milioni) come lo stesso accordo sui Google Glass, su cui Del Vecchio non sarebbe stato del tutto convinto e sul quale sarebbe stato informato solo a cose fatte.
Il divorzio sarebbe maturato a luglio ed esploso poi allo scoperto dopo Ferragosto, con le indiscrezioni trapelate sui giornali (mentre in azienda si sperava di tenere la cosa sottotraccia fino alla fine dell’estate). Ma dissapori pare che covassero da anni. Addirittura dai tempi, era l’autunno del 2012, del mezzo flop del collocamento di titoli Luxottica, quando Del Vecchio, riluttante a diluirsi, era stato convinto da Guerra a cedere sul mercato un pacchetto del 7%. Ma alla fine si riuscì a piazzare solo la metà e ad un prezzo deludente (27 euro, il titolo è poi arrivato a 40). A inizio 2014, poi, lo stesso Del Vecchio aveva chiesto al manager di accettare un affiancamento, un co-amministratore delegato. Un’eresia per Guerra, abituato a comandare in prima persona. Tanto che il nuovo corso scelto da Del Vecchio va nella direzione esattamente opposta: non più un one–man show, ma un triumvirato, il comando diviso tra più manager. Guerra o no, quando abitui così bene il mercato, hai un solo nemico: te stesso. Come il primo della classe abituato a prendere sempre il massimo dei voti, il giorno che si presenta anche solo con un 9, tutti gridano alla “fine del campione”. Battere se stessi, ripetersi nei successi non è facile. Solo che il mercato da un campione si aspetta ogni volta un nuovo record: è la condanna dei numeri uno. Vincere sempre.
Guerra, poi, ci aveva messo del suo: il manager classe 1965, ex baby-campione di nuoto, ha fissato l’asticella tremendamente in alto. Obiettivo: 10 miliardi di fatturato nel 2016. Tanto. “Ambizioso” l’hanno definito, il traguardo, gli analisti. Un modo diplomatico per dire che forse rischia di essere esagerato: sarebbe un +30% nei prossimi tre anni. Troppo? Forse sì, o forse no. Dipende. Luxottica ce la può fare, se riuscirà ad assestare l’ennesimo colpo sul mercato. Perché il balzo del fatturato, soltanto con le proprie forze, sembraimpresa ardua. I soldi (200 milioni il budget dichiarato) per una mega operazione ci sono. Ma la Borsa ultimamente non è così entusiasta su Luxottica. Langue da un anno (–4%): il prezzo è praticamente inchiodato attorno alla soglia dei 40 euro, mentre Piazza Affari è rimbalzata del 30% negli ultimi due anni. La verità è semplice: Luxottica ha già corso tanto.
Luxottica ha una pagella di A–, meglio dell’Italia, che è stata boccia a Tripla B due anni fa. L’azienda di Del Vecchio è più affidabile di un’intera nazione. Perché di italiano Luxottica ha solo la proprietà e la sede fiscale, ma è totalmente avulsa dalle sorti del Paese e al rischio di un default dell’Italia. Quando vendi in cinque continenti, il tuo paese natale è solo una questione contabile (o al massimo affettiva), ma non più di business.Senza di fatto rivali al mondo, con lo scettro ben saldo in mano e senza che si veda qualcuno in grado di sottrarglielo, l’unico vero concorrente Luxottica ce l’ha dentro casa. E, purtroppo, ha le armi spuntate per sconfiggerlo: l’euro. La moneta unica è troppo forte sul dollaro. Col biglietto verde ai minimi chi vende in area americana o in valute deboli, ha un problema.
Costi in euro, quindi, una divisa forte, ma (parte dei) ricavi in dollari, yen, real brasiliani e dollaro australiano. Valute tutte debolissime. È una mazzata per i conti. Ogni 10% di deprezzamento del dollaro sull’euro, hanno calcolato gli analisti, penalizza l’utile per azione di 9 punti base. Ad Agordo, hanno preso alcune contromosse, tipo aumentare i prezzi.
E poi ci sono le licenze. Luxottica vive di fatto sul marchio delle griffe a cui paga royalties – per usare il loro nome: oggi può vantare i top brand del lusso. Ma l’incognita è sempre dietro l’angolo. Basta perdere una licenza per vedere andare in fumo decine di milioni di fatturato. Come il caso Armani–Safilo insegna.
Vuoi vedere che Luxottica si è sbilanciata in una promessa che potrebbe rivelarsi un boomerang? Che quel traguardo dei 10 miliardi è forse esagerato. E ora, senza il manager che l’ha guidata e plasmata negli ultimi dieci anni, la sfida è ancora più difficile. Il tutto sembra un salto nel buio, ora che Guerra se n’è andato. Anche nel lontano 1961, però, qualcuno avrebbe potuto definire “esagerato”, se non peggio, il sogno di un terzista di Agordo di diventare un colosso degli occhiali. La Storia gli ha dato poi ragione. Chissà che non continui a farlo.