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Mashrou’ Leila, il gruppo simbolo delle primavere arabe torna a suonare in Italia

Cantano il Medio Oriente e le rivoluzioni arabe, si chiamano Mashrou’ Leila e vengono da Beirut. Hanno 25 anni e suoneranno il 6 novembre a Venezia e il 7 a Parma.  Stanno cambiando la musica con lo slogan “occupy arab pop” e sono la più famosa band indie-rock mediorientale. Formiche.net ha intervistato Hamed Sinno, cantante di Mashrou’ Leila.

Beirut che dista a pochissime ore di macchina dal fronte di guerra siriano ha uno stile di vita lontano anni luce dalle idee dell’Isis. Come è la vita notturna della città?

Veramente vibrante, ci sono tantissimi club dove si suonano tutti i generi musicali, dalla tecno pesante al jazz. La notte nelle strade di Beirut si assiste a trionfo della libertà, si vedono persone di ogni genere e provenienza. Io personalmente trovo che i tantissimi festival sparsi per il Libano siano i luoghi più creativi. Si sente un’ottima musica, non solamente in quelli più grandi, ma anche nei più piccoli. I biglietti sono un po’ costosi, ma vale la pena comprarli.

Al vostro quarto disco e con fan ormai in tutto il mondo,  il vostro nuovo progetto sarà nella tradizione dei vostri primi lavori o cambierete giocando con la musica?

Dopo cinque anni che siamo insieme siamo molto interessati a fare cose nuove, ascoltiamo molta più musica di prima, anche per lavoro. È divertente perché al contrario dei primi anni ascoltiamo più canzoni pop. Si tratta di un genere musicale molto più accessibile di quelli a cui siamo abituati, ma tentiamo di fare del pop complesso.

State lavorando a un nuovo album?

Sì, si tratta di un progetto ancora lungo, siamo solo all’inizio. Per altro stiamo lavorando su più fronti. E’ un periodo fecondo. Per esempio stiamo collaborando con un produttore molto commerciale. A questo punto non posso ancora dire troppo, ma per noi che siamo abituati a creare dischi che non appartengono al “main stream”, è un progetto molto insolito, una vera sfida.

Com’è andato il vostro tour primaverile in Europa?

È stato intenso e molto bello, per la prima volta abbiamo suonato anche in piccole città. A Parigi abbiamo ormai il nostro pubblico, ma nelle realtà di provincia è stata una novità. Anche a Londra ormai siamo di casa, ma nelle piccole città è tutta un’altra storia ed è emozionante vedere le reazioni positive del pubblico.

Rolling Stone vi ha dedicato la copertina della sua edizione araba

E’ stato fantastico, era la prima volta che tutto il gruppo faceva una copertina insieme, spesso le abbiamo fatte da soli. Poi il fatto che una delle riviste cult del mondo musicale ci abbia messo in prima pagina è stato per noi davvero importante. Io ero stato già protagonista di articoli poi finiti in copertina, ma spesso si trattava di riviste sullo stile e sulla moda.

C’è qualche artista con cui vorresti collaborare?

Tantissimi, tra quelli libanesi vorrei lavorare molto con Yasmin Hamdan, La amo moltissimo.

Mi farebbe piacere collaborare con qualcuno del lato più commerciale dell’industria discografica, non dovrei dirlo, perché è un progetto ancora segreto, ma abbiamo fatto qualcosa con un produttore molto “main stream”. E’ stato difficile perché ovviamente all’inizio non amavamo come veniva il lavoro, ma è stato molto interessante e secondo me è stata una vera sfida, pensi che i tuoi fan ti uccideranno per aver provato a cambiare genere per scherzo, ma proprio per questo è stato eccitante.  

Ho  visto il vostro concerto al Cairo Mall, c’erano migliaia di persone, ma tra voi e il pubblico c’era una piscina immensa. Era strano vedere il gruppo rock simbolo della primavera araba, abituato a roof top di grattacieli mal tenuti o a mega concerti rock nei parchi,  che canta canzoni sull’omosessualità, sulle libertà di matrimoni inte-religiosi e ateismo, in un posto così popolare per le famiglie. E’ stato facile suonare lì?

Il nostro pubblico è ormai molto vario, per fortuna i tempi sono cambiati e la gente non è più così conservatrice come sembra, ma è stato un concerto difficile per la distanza tra il palco e il pubblico, si perdeva molto del contatto umano.

Vi ho visto suonare in situazioni davvero molto differenti, ad Alessandria d’Egitto, per esempio, eravate più underground, al Cairo, spesso fate concerti di massa, a Firenze, vi siete esibiti in un festival sull’arte mediorientale, avete la capacità di parlare a mondi molto diversi tra loro.

Al Cairo è sempre un successo, così come in moltissimi paesi mediorientali o Londra e Parigi. Sono davvero grato al nostro pubblico perché ogni concerto ci regala emozioni incredibili. Quando suoniamo invece per la prima volta in un luogo, torniamo al piacere di conquistare un pubblico che ancora non ci conoscono, prossimamente stiamo progettando di suonare in Marocco, Algeria e a Berlino.

Che relazione hai con la lingua araba. Ci sono vari livelli con cui la gente ascolta la vostra musica, in Medio Oriente, dove siete un gruppo cult, comprendono le parole delle canzoni, ma in occidente i vostri fan vi amano molto anche se poi si devono studiare i testi.

Quando iniziammo, decidemmo che volevamo cantare in arabo nonostante l’inglese fosse la mia lingua madre, scrivo, leggo e penso in inglese perché è la lingua in cui ho studiato. Ci siamo incontrati alla facoltà di design dell’Università Americana di Beirut. Risolvere problemi è il cuore del lavoro dei designer e noi abbiamo risolto il nostro dilemma iniziale sulla lingua scegliendo l’arabo. Volevano colmare la mancanza di indie rock arabo. Ascoltavamo molta  musica straniera, ma pochissima araba perché quella buona non passava nei canali televisivi. Si sentiva solamente la musica “main stream” che a noi non interessava. Dopo tutti questi anni non potrei immaginare di cantare in inglese. Certo renderebbe le canzoni più accessibili per molti ascoltatori, ma amo pensare che alcuni livelli rimangano più intimi, quasi solo per noi.

Il Libano è uno dei paesi più contraddittori al mondo. La realtà di Beirut è molto diversa da quella delle campagne?

Le due realtà si  mischiano molto più di quello che la gente pensi. Beirut durante il giorno è piena di persone che vengono dalle campagne e che poi tornano la sera a casa. Quindi vi è un incontro giornaliero tra questi due mondi, le persone arrivano scappando dal mondo rurale o per lavorare e si trovano di fronte a morali di vita e sessuali, completamente diverse. La gente è abituata a questi contrasti.

A Beirut c’è un’enorme armonia di suoni, sopratutto venendo da una famiglia musulmana, il corano è pieno di armonie. Quando mio padre morì, le preghiere furono molto musicali. La prima cosa che lo sheik disse alla mia famiglia fu di non piangere, perché era un mettere in discussione la decisione di Dio. Per le famiglie sciite è una cosa molto differente, loro, sopratutto quando ricordano l’uccisione delll’Imam Hussayn durante l’Ashura, piangono e urlano. Nei loro funerali, al contrario che in quelli dei sunniti, si disperano a più non posso. I sunniti lo fanno in Egitto, i cristiani so che fanno la stessa cosa nel sud Italia.

Anche i mendicanti a Beirut sono molto poetici, quasi cantano. Recitano versi del corano per chiedere soldi.

Il musicista ebreo Daniel Barenboim e il palestinese Edward W. Said, in “Paralleli e paradossi. Pensieri sulla musica” scrivono che la musica è “un luogo irreale ed effimero che si anima per la breve durata delle note, la musica vive sospesa tra due dimensioni: soggetta alle regole della fisica, costruita su precisi rapporti matematici, è al tempo stesso capace di esprimere sentimenti e ideali con un’intensità che l’immagine e la parola raramente attingono”.

Se penso al rapporto tra la musica e i rumori a Beirut, penso alla mia infanzia, si cresce con alcuni suoni che saprei subito riconoscere, appartengono a Beirut. Non saprei bene definirli, ma se li sento non avrei dubbi sul fatto che siano provenienti da casa mia, il modo con cui la gente parla per esempio o il suono del traffico.

Tornerete presto in Italia?

Sì,  il 6 novembre saremo a Venezia al Centro Culturale Candiani e il 7 a Parma al Barezzi Live Festival.



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