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Un precipizio atomizzato senza fine

Siamo sprofondati in un sistema politico atomizzato, che rende impossibile qualsiasi sintesi, anche se si moltiplicano i personaggi (nuovi, mezzo nuovi e vecchissimi) che giurano di possedere la formula che trasforma le pietre in oro e assicura un felice futuro a questa nostra disastrata Italia. Che, perdute, smarrite o abbandonate ideologie cui troppi si aggrappavano per comodità e opportunismo, ora pare una torre di Babele ronzante, mira al cielo e non sa stare coi piedi in terra, sembra ricca di decine di milioni di salvatori della patria che, però, hanno seguiti così meschini da potersi contenere in un bilocale di periferia.

Un tempo si sarebbe detto che l’Italia s’è balcanizzata, disaggregata in uno sbocco di etnicismi smarriti e ingiustificabili, in pezzettini di appendici geografiche, ognuna con una propria minuscola capitale e un piccolo borioso capitano di ventura al comando di bande tribali zingaresche tanto orgogliose quanto pazzoicamente distruttive. Oppure si sentiva giurare che la nostra cosiddetta «politica» era precipitata a livello di una repubblichetta sudamericana, dove si alternavano governi ogni semestre, tutti col marchio d’origine di un pronunciamiento, di un colpo di Stato, insomma. E continuarono ad esistere giornaloni, pretendenti l’esclusiva dell’intelligenza pubblica (e repubblicana), che disinvoltamente distribuiscono agli avversari l’etichetta di “repubblica delle banane”, senza però osare di guardare bene in casa propria, dove si celano di continuo rancori, perfidie e nullismi politici.

A volere, invece, dare retta ai teorici dei sistemi politici, che da decenni e decenni si affannano a spiegare come nessun sistema politico moderno possa andare disgiunto dalla forza del consenso popolare più che dall’alterigia d’una proposta non spiegata e, quindi, non compresa dagli elettori-cittadini, si potrebbe cominciare a soffermarsi su un concetto elementare, e tuttavia perennemente aggirato: la democrazia è un mix di ipotesi migliorative e di elettori che le supportano. Le tesi si celebrano in ambienti speciali, che si chiamano partiti (e non comitati elettorali, giacché questi sono invece antichi strumenti di raccolta di voti spesso meramente clientelari). Gli elettori possono variare, per qualità e numero, a seconda delle capacità dei partiti di aggiornarsi di continuo, di non attardarsi in vecchie costumanze, cercando di interpretare il verso dei venti che mutano e talvolta possono anche essere impetuosi.

Se un partito che ha una sua lunga storia di strutturalità (persino ambita dal principale avversario, come capitò alla Dc di Fanfani verso il Pci di Togliatti), contemporaneamente si trova a perdere i quattro quinti dei propri iscritti (cioè gli elaboratori delle tesi che li differenziano da altre formazioni) epperò moltiplica i propri consensi, sino a superare comodamente il quaranta per cento dei voti validi, ciò vuol dire almeno due cose: 1) la sua identità non corrisponde alla propria storia vantata; 2) il suo elettorato non è più quello tradizionale e il partito si è trasformato in un comitato elettorale, travisando la propria funzione e provocando, al proprio interno, una rissa (particolarmente composta di voti segreti parlamentari incoerenti con le tesi) così vistosa da renderlo una struttura politica coi piedi d’argilla e con una testa che pensa, ma i cui pensieri non vengono raccolti da quelli che dovrebbero costruire il nerbo vitale della specifica forza politica.

Ciò che sta accadendo in questa non ammirabile XVII legislatura, è una corsa sgangherata allo sminuzzamento delle tesi (al punto da renderle irriconoscibili e persino ormai indigeste) e, soprattutto, delle aggregazioni pseudopartitiche, che a loro volta sempre più somigliano a fotografie di minorenni che si sentono già adulti e imprescindibili ed hanno anche la pretesa di essere gli unici a possedere una indispensabilità e una forza propulsiva.

È chiaro che, permanendo in tali condizioni, l’Italia non potrà uscire dalla crisi economica terribile che viviamo; ma neppure da una crisi politica di dimensioni epocali: svuotata di pensiero politico; dominata da ambizioni spropositate quanto ingiustificate; incapace di risolvere alcuno dei problemi che ci assilla. Quasi potessimo accontentarci di vedere progressivamente sbracare parlamento, organi costituzionali, corporazioni velleitarie e sempre meno rappresentative, una magistratura che quotidianamente dà spettacolo delle proprie interne divisioni che finiscono con lo scaricarsi sull’ingestibilità della giustizia. Tutti si appellano al senso di responsabilità, ma nessuno lo pratica come dovrebbe. E ciò spiega perché il primo partito italiano sia quello delle astensioni.


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