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Pregi e difetti del Def anti-austerity di Renzi e Padoan

Pubblichiamo grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori e dell’autore, l’articolo di Tino Oldani uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi

Il Documento di economia e finanza (Def) approvato dal governo conferma quanto avevamo previsto: senza avere concordato nulla con Bruxelles, con la scusa di «un quadro economico molto deteriorato», l’Italia ha deciso di rinviare al 2017 il pareggio di bilancio, ignorando così un obbligo imposto dal Fiscal Compact. In cambio, come hanno promesso il premier Matteo Renzi e il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, il nostro Paese farà alcune riforme «pesanti», a cominciare da quella del lavoro, con l’abolizione dell’articolo 18. Per rendere meno traumatico l’addio (temporaneo) al Fiscal Compact, il ministro Padoan, parlando alla Camera, ha tenuto a ribadire che l’Italia rispetterà comunque il paletto di Maastricht del 3% nel rapporto deficit-pil. Argomentazione che, probabilmente, ribadirà ai colleghi ministri delle Finanze europei, con i quali terrà un vertice il 12 e 13 ottobre a Lussemburgo, due giorni prima di consegnare all’Unione europea la Legge di stabilità 2015, dove le indicazioni del Def assumeranno la veste di norme di legge.

Questo modus operandi di Renzi e Padoan, a ben vedere, non ha nulla di scandaloso. La Francia lo fa da anni, il suo deficit supera il pil di oltre il 4%, e finora a Bruxelles nessuno si è permesso di aprire una procedura d’inflazione. Il motivo? Un’eredità dell’asse franco-tedesco, dicono gli esegeti, cioè di quella alleanza politica che da anni consente al governo di Angela Merkel e a quello francese di turno (prima Nicolas Sarkozy, ora Francois Hollande) di fare i propri comodi in Europa. Per Renzi, in forza della sua squillante vittoria alle europee, ora anche l’Italia può fare altrettanto. Non solo. Il premier ricorda spesso che anche la Germania, per poter fare le riforme del lavoro, circa dieci anni fa sforò il paletto del 3%, e allora l’Italia non si oppose. Ergo, dice Renzi, «chi fa le riforme può sforare». Le prossime settimane diranno se il suo azzardo avrà successo, o meno.

Di certo, l’intenzione del governo di non varare l’ennesima manovra recessiva, a base di tasse, va salutata con favore. Come va apprezzato il tentativo di aprire qualche varco a una maggiore spesa pubblica per ridare fiato all’economia, aggirando con un rinvio al 2017 il Fiscal Compact, di cui anche a livello di governo, con grave ritardo, si stanno cogliendo gli aspetti demenziali. Ma i punti deboli della manovra non sono pochi, e difficilmente sfuggiranno ai fautori dell’austerità che la Merkel e i Paesi del Nord Europa hanno infilato nei posti chiave della Commissione Ue. Un esempio? Se il deficit 2015 non sforerà il 3%, come Renzi e Padoan vanno ripetendo, lo si deve soltanto al fatto che il pil è stato appena rivalutato dello 0,9%, includendo il valore delle attività illegali, che per la loro stessa peculiarità non prevedono fatture, né tracciabilità.

L’Italia non è stata l’unico Paese europeo a farlo. Ma l’entità della nostra correzione ha suscitato stupore, visto che si dà per certo che le attività illegali in Italia siano dieci volte superiori, per entità, a quelle stimate in Germania, e di un terzo a quelle della Gran Bretagna. A differenza dell’ufficio statistico di Sua Maestà, che ha reso noto nei dettagli il metodo di calcolo delle attività illegali inglesi, non altrettanto ha fatto l’Istat, che tuttavia ha stabilito che ogni italiano in età sessualmente attiva spende ogni anno 167 euro per andare con le prostitute, a cui si sommano in media 248 euro di valore aggiunto pro capite l’anno per l’acquisto di droga, più altri 300 euro di spesa annua per ogni fumatore che acquisti sigarette di contrabbando.

Romano Prodi, per fare entrare l’Italia nell’euro, varò l’eurotassa. Ora, per restare dentro Maastricht, si scopre l’acqua calda, e si aggiusta il pil con la spesa per le mignotte, la droga e il fumo di contrabbando. C’è sperare che l’Ue sia più benigna rispetto a Prodi, che fu costretto a restituire l’eurotassa, giudicata un trucco per falsare il bilancio. Altrimenti neppure Maastricht sarà rispettato, e saranno guai.

L’addio di Padoan al Fiscal Compact, sia pure temporaneo, ha probabilmente fatto piacere anche ai promotori di un referendum contro alcune clausole di questo trattato, disgraziatamente inserite nella Costituzione. Tra loro, vi sono economisti, politici e uomini di cultura di differenti tendenze politiche, ma tutti accomunati dalla volontà di porre fine all’austerità suicida del Fiscal Compact (www.referendumstopausterità.it). Tra i nomi più noti, Mario Baldassarri, Gustavo Piga, Nicola Piepoli, Leonardo Becchetti, Antonio Pedone, Cesare Salvi, Giulio Salerno, Paolo De Ioanna, Massimo D’Antoni. I giornaloni non ne hanno mai parlato, e la raccolta delle firme, quasi clandestina, è finita il 30 settembre: se il quorum di 500 mila firme sia stato raggiunto, non si sa. Ma che il ministro Padoan abbia deciso di ignorare il Fiscal Compact proprio nell’ultimo giorno valido per le adesioni, è stato visto dai promotori come un auspicio favorevole. In fondo, seppure all’ultimo minuto e a sua insaputa, anche Padoan ha «firmato» il referendum contro i punti più autolesionisti del Fiscal Compact. Che l’Italia stia davvero cambiando verso?


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